La dottrina
cattolica sul sacerdozio ministeriale
prima,
durante e dopo il Concilio Vaticano II
Don Mauro
Gagliardi
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma
0. Introduzione
Viene qui offerto un breve saggio sulla dottrina cattolica sul sacerdozio ministeriale, in particolare nel grado del presbiterato. Dati i limiti di questa presentazione, che tocca temi molto complessi, procederemo per cenni e schematizzazioni, evitando numerosi riferimenti e rimandi, che sarebbero necessari, o almeno utili, in una trattazione che volesse proporsi come tendenzialmente completa.
1. Il sacerdozio ordinato nel Magistero della Chiesa fino al Vaticano II
Sin dagli scritti dei santi Clemente Romano e Ignazio Antiocheno, si evince l’esistenza e diffusione, nella Chiesa subapostolica, di tre gradi del ministero ordinato: episcopato, presbiterato e diaconato[1]. Qui noi ci interessiamo prevalentemente del presbiterato, che chiameremo anche sacerdozio, citando alcuni dei documenti magisteriali più importanti, tralasciando i riferimenti ai Padri della Chiesa ed ai Dottori.
Contro i Valdesi, i quali negavano che, per celebrare validamente l’Eucaristia, fosse necessario il sacerdote ministro, il Concilio Lateranense IV (1215) intervenne con chiarezza: «Questo sacramento non può assolutamente compierlo nessuno, se non il sacerdote, che sia stato regolarmente ordinato» (DS[2] 802).
Più ampia è la dottrina del Concilio di Firenze del 1439. Nella Bolla di unione con gli Armeni Exsultate Deo, si espone una sintetica dottrina sul settenario sacramentale, in cui si insegna: «Con il sacramento dell’Ordine la Chiesa è governata e moltiplicata spiritualmente» (DS 1311). Insieme al Battesimo ed alla Cresima, l’Ordine è fra i sacramenti «che imprimono nell’anima un carattere indelebile, ossia un segno spirituale che distingue dagli altri» (DS 1313). Il sacerdote è ministro di diversi sacramenti: Battesimo (DS 1315), Eucaristia (DS 1321), Penitenza (DS 1323), Estrema unzione (DS 1325), e in certi casi può amministrare anche la Cresima (DS 1318). Nel celebrare l’Eucaristia, «il sacerdote consacra parlando in persona di Cristo [in persona Christi]» (DS 1321). Il Concilio Fiorentino precisa anche la materia del sacramento di ordinazione, consistente nella porrectio instrumentorum – ossia nella consegna degli strumenti propri ad ogni grado dell’ordine –; e la forma, consistente nella formula di ordinazione fissata dalla Chiesa (DS 1326). La formula è la seguente: «Ricevi il potere di offrire il sacrificio nella Chiesa, per i vivi e per i morti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (ibid.), dal che si deduce che l’essenza del sacerdozio ordinato consiste nell’offerta del sacrificio eucaristico nella Chiesa e nel nome della Trinità[3].
Il terzo Concilio che si è occupato sistematicamente del sesto sacramento è il Concilio di Trento (1545-1563), la cui dottrina sul sacerdozio viene meglio compresa se si conosce la dottrina luterana sull’Eucaristia e sull’Ordine sacro, che qui non è possibile riassumere. Il can. 9 del Decretum de sacramentis del 1547 scomunica chi afferma che con il sacramento dell’Ordine non viene impresso nell’anima il carattere, «cioè un segno spirituale ed indelebile» (DS 1609). Il can. 10 scomunica chi affermi che «tutti i cristiani hanno il potere di annunciare la Parola [di Dio] e di amministrare tutti i sacramenti» (DS 1610). Il can. 11 afferma, sotto condanna del contrario, che i ministri celebrano validamente i sacramenti se hanno almeno l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa quando li celebra (DS 1611). Il can. 12 insegna, sotto minaccia di scomunica per chi sostiene l’affermazione contraria, che il ministro celebra validamente i sacramenti anche se si trovasse personalmente in peccato mortale (DS 1612).
Il Decreto sulla Doctrina de sacramento paenitentiae, del 1551, afferma che solo i vescovi e i sacerdoti sono ministri del sacramento della Penitenza, perché solo ad essi e non a tutti i fedeli è stato conferito il potere delle chiavi, e che essi esercitano validamente la funzione di perdonare i peccati perché sono ministri di Cristo, anche se fossero essi stessi in peccato mortale (DS 1684; 1710). Nel sacramento della Penitenza, il sacerdote, nel dichiarare rimessi i peccati, emette una sentenza a guisa di atto giudiziario, ossia in quanto giudice (DS 1685; 1709). Il Decreto sulla Doctrina de sacramento extremae unctionis insegna che ministri del sacramento dell’Estrema Unzione sono i presbiteri della Chiesa, espressione con cui bisogna intendere, nel passo di Gc 5,14, sia i vescovi che i sacerdoti da essi ordinati (DS 1697; 1719)[4].
Molto importante per il nostro tema è anche il Decreto di Doctrina et canones de Ss. Missae sacrificio, del 1562. In esso si mette in chiara relazione il sacerdozio ordinato con il sacerdozio unico di Gesù Cristo. Si dice, infatti, che il Signore Gesù istituì l’Eucaristia «poiché il suo sacerdozio non doveva estinguersi con la morte» e perciò Egli – «sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedech» – costituì gli apostoli «sacerdoti della nuova alleanza» e «comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio» che offrissero il «sacrificio visibile» ed incruento, ossia l’Eucaristia, con cui viene significato il sacrificio cruento della Croce, dal quale siamo stati salvati. Il Concilio precisa che il momento dell’istituzione del sacerdozio degli apostoli coincide con la dizione delle parole «Fate questo in memoria di me» (DS 1740; 1752). I sacerdoti sono considerati dunque come immolatori di Cristo nel sacramento eucaristico: Cristo «istituì la nuova Pasqua, e cioè se stesso, che doveva essere immolato dalla Chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti sotto segni visibili» (DS 1741).
Nella Sessione XXIII, del 15 luglio 1563, il Tridentino si occupò direttamente dell’Ordine sacro, producendo il Decreto di Doctrina et canones de sacramento Ordinis. Il testo esordisce dichiarando l’inscindibile legame tra sacerdozio e sacrificio, anche al di fuori dell’economia salvifica cristiana (DS 1764). Siccome il Signore Gesù ha stabilito nell’Eucaristia un nuovo sacrificio, egli ha allora istituito anche un nuovo sacerdozio (DS 1764; 1771). Il Concilio distingue diversi gradi, tra Ordini maggiori e minori (DS 1765; 1772). L’Ordine sacro è certamente uno dei sette sacramenti della Chiesa istituiti da Cristo e il Concilio afferma che, con questo sacramento, viene conferita una speciale grazia (DS 1766; 1773-1774). Siccome il sacramento imprime il carattere, una volta conferito il sacerdozio non è più possibile essere fatti laici (DS 1767; 1774). Dalla sacramentalità dell’Ordine deriva il fatto che non tutti i cristiani sono sacerdoti del Nuovo Testamento, nel senso che non tutti godono dello stesso potere spirituale (DS 1767). Invece, vi è nella Chiesa una gerarchia composta da vescovi, sacerdoti e ministri (DS 1776), in cui i vescovi sono superiori ai sacerdoti (DS 1777).
Recependo gli insegnamenti tridentini, il Catechismus ad Parochos del 1566 sottolinea l’aspetto sacrale-rappresentativo e cultuale-sacerdotale del sacerdozio cattolico. I sacerdoti (vescovi e presbiteri) «sono come interpreti ed ambasciatori di Dio, nel cui nome comunicano agli uomini la legge divina ed i precetti della vita. Essi ne rappresentano sulla terra la persona. È chiaro che nessuna funzione può concepirsi più insigne della loro e che, a ragione, sono chiamati non solo angeli, ma persino dèi; essi infatti rappresentano tra noi l’efficacia e l’azione di Dio immortale» (§ 273)[5]. In questa prima citazione, notiamo il carattere sacrale di «rappresentanza» di Cristo, che è proprio del sacerdote ordinato. L’aspetto cultuale-sacerdotale si trova espresso nello stesso § 273: «Sebbene i sacerdoti abbiano rivestito sempre una dignità somma, quelli del Nuovo Testamento vanno per onore innanzi a tutti gli altri. La potestà ad essi conferita di consacrare e di offrire il Corpo e il Sangue del Signore, e quella di rimettere i peccati, oltrepassano, si può dire, l’ambito dell’intelligenza umana. Non c’è nulla di simile sulla terra».
Continuando nella nostra esposizione in ordine cronologico e per sommi capi, passiamo direttamente alla Lettera Apostolica Apostolicae Curae, emanata il 13 settembre 1896 da Papa Leone XIII, che si occupa delle ordinazioni anglicane, ritenendole invalide[6]. Il motivo per cui il Papa ritiene non valide quelle ordinazioni consiste nel difetto di forma. Se materia di questo sacramento viene considerata l’imposizione delle mani, la forma consiste nella formula di ordinazione, la quale è per gli anglicani: «Ricevi lo Spirito Santo». Per Papa Leone, simili parole «non significano affatto in modo preciso l’Ordine del sacerdozio o la sua grazia e potestà, che in particolare è la potestà “di consacrare e di offrire il vero Corpo e Sangue del Signore” [citaz. del Concilio di Trento: DS 1771]» nel sacrificio della santa Messa (DS 3316). Il Papa è a conoscenza del fatto che, successivamente, gli anglicani hanno corretto la formula aggiungendovi: «per la la funzione e il compito di presbitero [o di vescovo]», segno che essi stessi si sono resi conto dell’insufficienza della prima formulazione. Ma quest’aggiunta, dice Leone XIII, «anche se fosse in grado di apportare alla forma il legittimo significato, è stata introdotta troppo tardi», cioè quando si era già «estinta la gerarchia» presso gli anglicani e quindi «la potestà di ordinazione era ormai nulla» (ibid.). La formula dell’Ordinale anglicano è stata composta in modo inadeguato perché i riformatori lo hanno redatto in modo tale che in esso «non solo non c’è nessuna chiara menzione del sacrificio, della consacrazione e della potestà del sacerdote di consacrare e di offrire il sacrificio; ma anzi [...] sono state deliberatamente eliminate e distrutte tutte le tracce di queste cose» (DS 3317a)[7]. Eliminando il riferimento al sacrificio ed al potere sacerdotale correttamente inteso, le formule «Ricevi lo Spirito Santo» e «per la funzione e il compito di presbitero [o di vescovo]» non hanno più consistenza (DS 3317b). Il vizio di forma, infatti, comporta il vizio di intenzione, la quale è ugualmente necessaria per la validità del sacramento (DS 3318)[8].
Di grande importanza è anche la Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis, emanata il 30 novembre 1947 dal Sommo Pontefice Pio XII. La Costituzione si occupa del sacramento dell’Ordine, e precisamente: del diaconato, presbiterato ed episcopato, i quali sono quindi da considerarsi come gradi del sacramento. Non vengono inclusi, invece, gli ordini del suddiaconato, accolitato, lettorato, esorcistato ed ostiariato. In modo particolare, Pio XII si occupa dei riti essenziali con cui si viene ordinati nella Chiesa diaconi, presbiteri e vescovi. Il testo inizia affermando che il sacramento dell’Ordine, «mediante il quale viene trasmessa la potestà spirituale e viene conferita la grazia per assumere nel modo dovuto gli uffici ecclesiastici, è uno solo e medesimo per tutta la Chiesa» (DS 3857). Papa Pacelli, poi, identifica la materia e la forma di questo sacramento (nei suoi tre gradi) rispettivamente nell’imposizione delle mani (quindi non nella porrectio instrumentorum) e nelle parole che la determinano (DS 3858-3859). D’altro canto, dice, «la Chiesa Romana ha sempre ritenuto valide le ordinazioni conferite con il rito greco, senza la consegna degli strumenti» (DS 3858). Quest’ultima, strettamente parlando, non è pertanto necessaria per la validità dell’ordinazione. Molto significativo il passaggio in cui si precisa che la forma del sacramento sono le parole «che determinano l’applicazione di questa materia [l’imposizione delle mani], con cui in modo univoco vengono significati gli effetti sacramentali, cioè la potestà d’ordine e la grazia dello Spirito Santo» (DS 3859), chiaramente distinte a seconda dei diversi gradi del sacramento. La forma e materia sono poi precisate grado per grado al n. 5 della Costituzione (DS 3860)[9].
Dovendo qui tralasciare altri insegnamenti[10], è infine doveroso, in questo Anno Sacerdotale, promulgato nel 150° anniversario dalla morte di san Giovanni Maria Vianney, menzionare l’Enciclica del beato Giovanni XXIII, Sacerdotii Nostri primordia, emanata il 1° agosto 1959, in occasione del centenario della morte del Curato d’Ars. Nell’enciclica, il Papa si occupa soprattutto della vita spirituale e pastorale dei sacerdoti, più che della dottrina sul sacerdozio, preparando così il taglio eminentemente pastorale del Concilio Vaticano II[11].
Riprendendo in modo sistematico gli elementi che emergono da questa brevissima panoramica, possiamo dire che Gesù Cristo è l’unico Sacerdote del Nuovo Testamento, il cui sacerdozio consiste nell’offerta di sé al Padre per noi. Cristo ha tuttavia istituito il sacerdozio ministeriale nella Chiesa, che posseggono solo quei battezzati che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine sacro nel grado del presbiterato o dell’episcopato. Il presbiterato è uno dei due gradi del sacramento dell’Ordine che conferisce il sacerdozio; l’altro è l’episcopato. I presbiteri sono dunque sacerdoti ministri, perché partecipano del sacerdozio sacrificale di Gesù Cristo, sebbene in grado inferiore ai vescovi. Ciò si vede, ad esempio, dal fatto che il vescovo ed il presbitero sono entrambi ministri di un buon numero di sacramenti, dei quali non sono ministri né i diaconi (ordinati per il servizio, non per il sacerdozio) né tanto meno i laici, i quali posseggono, per il Battesimo, il solo sacerdozio comune dei fedeli.
Il presbiterato si riceve esclusivamente attraverso la valida celebrazione del sacramento dell’Ordine. Il Magistero insegna con chiarezza che nella Chiesa non tutti sono sacerdoti, nel senso del sacerdozio ministeriale o gerarchico. Sono sacerdoti ministri solo i battezzati che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine e solo costoro possono svolgere determinate funzioni nella Chiesa. Infatti il sacramento dell’Ordine trasmette, per usare la terminologia di Pio XII, «potestà» e «grazia» proprie, che non si ricevono con il Battesimo. Rientrano nell’ambito delle potestà del sacerdote ministro: il governo della Chiesa, il potere di celebrare i sacramenti, l’insegnamento e l’annuncio autorevoli della Parola di Dio. Nell’ambito della grazia, rientra innanzitutto il carattere sacramentale, impresso indelebilmente, cioè per sempre, nell’anima del sacerdote; nonché la cosiddetta «grazia di stato», necessaria al sacerdote per svolgere il suo ministero e santificarsi in esso.
La Chiesa insegna che il sacerdozio si comprende essenzialmente in relazione al sacrificio, e che il sacerdozio del Nuovo Testamento è stato istituito dal Signore in relazione al suo sacrificio di Croce, che si rinnova in modo incruento nella celebrazione dell’Eucaristia. L’essenza del sacerdozio ordinato consiste principalmente nell’offrire al Padre la Vittima divina Gesù Cristo sull’altare dell’Eucaristia, per la santificazione dei fedeli e la salvezza del mondo. Si può dire che il centro della funzione sacerdotale è lo stesso per il Sommo Sacerdote Gesù Cristo e per i sacerdoti che partecipano al sacerdozio di Lui, ossia l’offerta del sacrificio: se è vero che Cristo è venuto sulla terra anche per predicare l’avvento del Regno, i Vangeli mostrano che il Signore, durante la sua vita terrena, è tutto proteso verso quell’«ora» per la quale Egli è venuto e la stessa rivelazione sarà compresa – dice Gesù – solo dopo il compimento del suo sacrificio personale. L’essenza ultima del sacerdozio non consiste nella predicazione della Parola, sebbene essa sia importantissima e, assieme al governo della Chiesa, rappresenti un ufficio proprio del ministro ordinato. La Chiesa insegna che, in particolare quando celebrano la Messa, i sacerdoti operano in persona Christi. Essi sono ministri di Cristo e per questo non agiscono da se stessi, ma come strumenti di Lui. Ne consegue che la mancanza di santità personale del sacerdote non inficia i sacramenti.
2. L’insegnamento
del Concilio Vaticano II
Il Vaticano II tocca il tema del presbiterato in diversi documenti, ma lo tratta in modo particolare in Lumen Gentium (= LG) 28 e nel Decreto Presbyterorum Ordinis (= PO). Il testo di LG 28 è stato pubblicato più di un anno prima di quello di PO. Esso, benché molto più breve, è più importante, perché si trova all’interno di una delle quattro Costituzioni conciliari, i documenti più significativi del Vaticano II. In ragione di ciò, cominciamo la nostra breve analisi da LG 28, per poi passare a PO.
2.1 L’insegnamento sui presbiteri di LG
28
Il testo di LG 28[12] esordisce ricordando l’istituzione del ministero ad opera di Cristo e la trasmissione di esso dagli apostoli ai vescovi, loro successori. Questi ultimi «a loro volta hanno legittimamente trasmesso, secondo vari gradi, l’ufficio del loro ministero a diversi soggetti nella Chiesa. In tal modo il ministero divinamente istituito viene esercitato in ordini diversi da coloro che già in antico vengono chiamati vescovi, presbiteri e diaconi»[13].
Poi si passa a trattare dei presbiteri e il testo insegna: «Presbyteri, quamvis pontificatus apicem non habeant et in exercenda sua potestate ab Episcopis pendeant, cum eis tamen sacerdotali honore coniuncti sunt et vi sacramenti Ordinis, ad imaginem Christi, summi atque aeterni Sacerdotis, ad Evangelium praedicandum fidelesque pascendos et ad divinum cultum celebrandum consecrantur, ut veri sacerdotes Novi Testamenti» (AAS 57 [1965], p. 34). In questo testo vi sono due insegnamenti principali: a) i presbiteri non possiedono l’apice dell’ufficio di pontefici – che viene conferito ai vescovi – eppure sono veri sacerdoti del Nuovo Testamento ad immagine di Cristo Sacerdote; b) i loro compiti corrispondono ai tria munera dei vescovi, che evidentemente essi esercitano con minore autorità e potere spirituali: predicazione, governo, santificazione (munus docendi, regendi, sanctificandi).
Va qui notato che una diffusa traduzione italiana dei documenti del Concilio, l’Enchiridion Vaticanum, non ha tradotto alla lettera la prima parte del testo. La traduzione corretta è questa: «I presbiteri, pur non possedendo l’apice del pontificato e dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia ad essi congiunti per l’onore sacerdotale». Invece, l’Enchiridion Vaticanum ha tradotto come segue: «I presbiteri, pur non possedendo il vertice del sacerdozio, ma dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia congiunti a loro nell’onore sacerdotale»[14]. Come si nota dai nostri corsivi, questa versione rende il latino pontificatus con «sacerdozio». Ora, le due parole possono, a livello teologico, essere accostate quanto al loro significato[15], dato che l’ufficio sacerdotale consiste nell’essere mediatore tra Dio e il popolo[16], il che – come si è visto – si svolge concretamente in diversi modi, ma soprattutto nella celebrazione eucaristica; mentre l’ufficio di pontefice consiste nel presentare le preghiere della Chiesa a Dio[17]. È evidente che si tratta di aspetti della stessa funzione. Tuttavia, a livello terminologico, la tradizione teologica e liturgica preferisce chiamare solo il vescovo «pontefice»[18]: di qui, ad esempio, che il Liber pontificalis sia il volume che contiene le preghiere e le rubriche per le celebrazioni del vescovo, mentre per il presbitero si prevede il Liber ritualis[19]. Ma è anche vero che questi libri liturgici riguardano la distinzione tra ciò che spetta al vescovo o al presbitero eccetto la Messa e l’Ufficio. Quindi la celebrazione della Messa, apice dell’esercizio sacerdotale, prevede un libro usato indifferentemente da ogni sacerdote, vescovo o presbitero: quel libro che, attraverso una lenta evoluzione, è giunto a chiamarsi Missale. Di qui la non incompatibilità fra la tradizione liturgica e la possibilità di comprendere teologicamente il sacerdozio, anche nel grado del presbiterato, come esercizio di pontificato. Naturalmente, vi è una differenza di grado tra i sacerdoti vescovi e i sacerdoti presbiteri (cf. il già citato DS 1777) e per questo la Chiesa, quando parla di pontificato, si riferisce all’episcopato e non al presbiterato[20].
Se, dunque, si traduce il brano di LG 28 come fa l’Enchiridion Vaticanum, si perde un’importante distinzione. Quando i Padri conciliari affermano che i presbiteri non posseggono l’apex pontificatus, intendono distinguere i presbiteri dai vescovi, non distinguere il sacerdozio degli uni da quello degli altri. Al contrario il testo, mentre distingue vescovi e presbiteri quanto al pontificatus, li accomuna quanto al sacerdotium[21]. Cosa debba intendersi con sacerdotium, il testo lo dice subito dopo, richiamando il sacramento dell’Ordine ricevuto dai presbiteri, che li abilita a svolgere i tria munera nel grado loro proprio «ad immagine di Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote». Qui LG 28 cita Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28. Si tratta di brani classici, che qui è impossibile esaminare in dettaglio, i quali esprimono l’indole del sacerdozio di Cristo in base alla categoria di sacrificio e di permanenza. LG 28, in linea con la tradizione di sempre, sia magisteriale che teologica, intende il munus sacerdotale soprattutto come compito di offrire a Dio il santo sacrificio: ciò fa innanzitutto Cristo con il suo sacrificio perfetto e definitivo, che stabilisce la nuova ed eterna alleanza, e ciò fanno i sacerdoti ordinati – come dice il Concilio – ad immagine di Lui.
LG 28 riprende poi di nuovo la dottrina dei tria munera e, tra questi, riconosce esplicitamente l’eccellenza della celebrazione all’altare: i presbiteri «esercitano al massimo grado il loro sacro munus nel culto eucaristico o sinassi, nella quale, agendo in persona di Cristo [in persona Christi] e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano ed applicano l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre come Vittima immacolata, fino alla venuta del Signore» (AAS 57 [1965], p. 34). Segue l’enumerazione di altri compiti: il ministero della riconciliazione, il presentare al Padre le necessità e preghiere dei fratelli, il raccogliere la comunità e condurla a Dio essendo, in mezzo al gregge, adoratori del Padre in Spirito e verità, il ministero dell’insegnamento dottrinale impartito con la parola e con l’esempio (ibid.).
La LG passa poi a trattare della collaborazione dei presbiteri con i vescovi e afferma che i presbiteri «costituiscono con il loro vescovo un unico presbiterio» (AAS 57 [1965], p. 35). I presbiteri, ovunque essi operino, rendono in qualche modo presente il vescovo. È significativo che la LG riconosca il necessario legame tra presbiteri e vescovo, ma anche la reale responsabilità personale dei presbiteri nella cura della Chiesa: «Essi santificano e governano sotto l’autorità del vescovo la porzione di gregge del Signore loro affidata, rendono visibile nel loro luogo la Chiesa universale e forniscono un valido aiuto nell’edificazione del Corpo di Cristo» (ibid.; corsivo nostro). Inoltre va evidenziata l’espressione per cui i presbiteri formano il presbiterio insieme «con il loro vescovo». Più avanti il testo ritorna sull’autorità del vescovo, che deve essere obbedito con rispetto, mentre egli stesso deve considerare i presbiteri come figli ed amici. La LG afferma che, «in ragione dell’Ordine e del ministero, tutti i Sacerdoti, sia diocesani che religiosi, sono associati [coaptantur] al corpo episcopale» (ibid.). Questi brani, messi insieme, indicano che il Vaticano II insegna chiaramente la superiore autorità dei vescovi rispetto ai presbiteri, ma anche vede strettamente uniti i loro ministeri[22]. L’elemento di unione è l’Ordine e il sacerdozio.
La sacra Ordinazione, assieme alla missione, rappresenta anche il perno di un’altra, importante affermazione della Costituzione ecclesiologica: «In forza della comune sacra Ordinazione e della missione, tutti i presbiteri sono legati tra loro da intima fraternità» (ibid.): è il tema della fraternità presbiterale, fondata ontologicamente sul sacramento dell’Ordine, oltre che funzionalmente sulla comune missione. PO recepirà abbondamentemente l’insegnamento qui proposto in brevi parole. Dopo diverse indicazioni concrete, il testo conclude con un riferimento alla situazione del mondo odierno: «Poiché il genere umano oggi organizza sempre più la propria unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, unendo la sollecitudine e l’azione, sotto la guida dei vescovi e del Sommo Pontefice, sopprimano ogni ragione di dispersione, affinché tutto il genere umano sia condotto all’unità della famiglia di Dio» (AAS 57 [1965], pp. 35-36).
2.2 Il Decreto conciliare sul ministero
e la vita dei presbiteri
Il Decreto Presbyterorum Ordinis, emanato il 7 dicembre 1965, si colloca consapevolmente all’interno dell’ininterrotta tradizione magisteriale e teologica della Chiesa cattolica[23]. La finalità del documento è dichiarata al n. 1: il testo viene pubblicato «affinché nelle attuali circostanze pastorali e umane, tanto radicalmente mutate, i presbiteri possano trovare un sostegno più valido al loro ministero, e affinché si provveda adeguatamente alla loro vita» (AAS 58 [1966], p. 991). Va dunque subito ricollegato l’intero Decreto alle affermazioni finali di LG 28, che sottolineava l’hodie: le odierne condizioni della società, che spingono la Chiesa a riconsiderare, più che la dottrina teologica sul sacerdozio ordinato, le scelte concrete, organizzative e pratiche, che toccano la vita dei presbiteri, in modo da metterli nelle condizioni di svolgere adeguatamente il loro ministero di sempre nelle mutate condizioni del mondo attuale[24]. Anche qui si rivela, dunque, l’indole eminentemente pastorale che il Vaticano II si è voluta dare e che ogni interprete del Concilio deve rispettare, se vuole essere fedele al suo spirito ed ai suoi testi.
Naturalmente, pur dedicandosi soprattutto ad aspetti concreti, il Decreto PO espone in modo compendioso anche la dottrina sul presbiterato, che è in perfetta continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa e, da questa, mette in risalto alcuni aspetti che possono costituire una solida base per attuare quello stile presbiterale che il Vaticano II ha voluto additare quale possibile approccio alla situazione esistente nel difficile tempo in cui viviamo. Dati i limiti di questo studio, noi non possiamo fornire un’analisi dettagliata di PO, dovendoci limitare ad indicarne i temi principali a riguardo della dottrina sul sacerdozio cattolico.
Il presbitero viene considerato come servitore di Cristo e dei fratelli[25]. Il presbiterato viene inteso dunque cristocentricamente ed ecclesiologicamente. Il sacerdozio viene infatti descritto come partecipazione al ministero di Cristo (nn. 1 e 13). Per ben tre volte, il Decreto riprende dalla tradizione teologica e magisteriale l’espressione tecnica o la dottrina dell’in persona Christi (nn. 2; 12; 13)[26]. Anche per quanto riguarda l’essenza del sacerdozio ordinato, il Decreto si colloca nella linea della tradizione, individuandola nella potestà di offrire il sacrificio e di rimettere i peccati (n. 2). Questa verità viene declinata da PO in accordo all’ecclesiologia di LG, cioè mettendo in evidenza anche l’importanza del sacerdozio comune dei fedeli e ricordando che le potestà proprie ed esclusive dei sacerdoti ministri sono a servizio della Chiesa, ossia della congiunzione dei fedeli in un solo corpo. La declinazione della dottrina secondo quella che è stata poi definita «ecclesiologia di comunione»[27], rappresenta una conferma della dottrina di sempre operata in un modo nuovo, ritenuto più adatto ai tempi attuali. Vi è, dunque, continuità e novità. Per quanto riguarda, poi, il tema dell’essenza del sacerdozio ministeriale cristiano come ufficio di offrire il sacrificio eucaristico, tale dottrina viene ripetuta ancora al n. 14, sempre con un richiamo all’attuale situazione e con la menzione di una categoria che farà poi fortuna, quella di «carità pastorale»[28]. Scrive dunque PO 14: «La carità pastorale scaturisce soprattutto dal sacrificio eucaristico, il quale risulta pertanto il centro e la radice di tutta la vita del presbitero, sicché l’anima del sacerdote si sforzi di ripetere in sé ciò che si compie sull’ara del sacrificio» (AAS 58 [1966], p. 1013).
Il Decreto riprende anche la dottrina della chiara distinzione tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, che si riceve con il sacramento dell’Ordine sacro: «Il sacerdozio dei presbiteri, pur supponendo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, per l’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere e così sono configurati a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in persona di Cristo Capo» (PO 2: AAS 58 [1966], p. 992). Per questo motivo, i presbiteri posseggono una speciale autorità sacerdotale, che non posseggono i fedeli non ordinati (nn. 2; 6; 9). Ciò non significa, però, che essi siano autorizzati ad agire in maniera dispotica in mezzo al popolo di Dio. Il Decreto, anzi, tra le varie virtù proprie del presbitero, enumera la gentilezza (n. 3) e l’esimia umanità (n. 6), sebbene ciò non significhi venir meno alla fermezza d’animo e all’assidua sollecitudine per la giustizia (n. 3), né trattare gli uomini in base ai loro gusti (n. 6)[29].
Diverse conseguenze derivano dalla ricordata dottrina della distinzione essenziale tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale dei presbiteri. Si possono indicare tuttavia cinque conseguenze principali:
1) Innanzitutto il Concilio afferma l’eccellenza, la necessità e l’indefettibilità del sacerdozio ministeriale (n. 11).
2) In secondo luogo, i presbiteri sono riconosciuti in possesso delle facoltà, o dei ministeri, che derivano dal proprio status e che li mettono in stretta connessione con i vescovi, ossia dei tria munera[30]. Queste funzioni sono riconosciute come compito anche dei presbiteri, sebbene esse non siano espletate con quella pienezza che appartiene solo ai vescovi. Abbiamo già notato che il più importante tra i munera è il munus sanctificandi, in modo particolare la celebrazione della Messa, che segna la radice più profonda del sacerdozio dei presbiteri. PO parla del ministero sacramentale dei sacerdoti in diversi brani, e in modo particolare ai nn. 2; 5; 13. Al n. 13 si ribadisce ancora che nel mistero del sacrificio eucaristico «i sacerdoti esercitano il loro munus principale» (AAS 58 [1966], p. 1011). Ampio spazio viene dato dal Decreto anche all’importante munus docendi, il ministero della predicazione nei suoi diversi livelli. È noto che i presbiteri non posseggono tale munus con perfezione: essi non posseggono l’autorità – propria dei vescovi – di definire la dottrina. Tuttavia il munus docendi del presbitero, sebbene non sia connotato dalla potestas determinandi, possiede – sempre in unione e sottomissione al collegio episcopale guidato dal Papa – la potestas praedicandi. I presbiteri hanno ricevuto l’autorità per insegnare la dottrina della Chiesa nelle forme ordinarie dell’omiletica, della catechesi, dell’istruzione e di tutte le altre forme conosciute nella prassi ecclesiale. PO dedica al ministero della Parola di Dio in particolare i nn. 2; 4; 13. Il Decreto precisa che la predicazione del Vangelo di Cristo si fa sia con parole, attenendosi alla sana dottrina, sia con la testimonianza della vita. Infine, per il munus regendi, si può vedere in particolare il n. 6.
3) Da questi elementi, i Padri conciliari traggono anche l’insegnamento sulle finalità del presbiterato, che è la terza conseguenza della chiara affermazione della sua sacramentalità. Nel Decreto in analisi, emergono in particolare due finalità. I presbiteri sono ordinati innanzitutto per la gloria di Dio Padre in Cristo (n. 2) e per servire Cristo, Maestro, Sacerdote e Re (n. 1). In secondo luogo, essi vengono scelti per edificare la Chiesa, ossia per radunarla e condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (nn. 1; 6; 8). Pertanto, il presbiterato è finalizzato alla santificazione degli uomini (n. 2), la quale è impossibile senza conversione (nn. 4; 5; 6). Operando per favorirla, i presbiteri si mostreranno ministri di quel Vangelo che, sin dai suoi esordi, è stato predicato dal Signore stesso come invito alla conversione, cioè al cambiamento di vita per quanto riguarda i costumi disordinati (cf. Mc 1,15).
4) Una quarta conseguenza che scaturisce dalla sottolineatura del carattere sacramentale del presbiterato consiste nell’insegnamento offerto da PO sulla fraternità sacramentale dei presbiteri, fondata proprio sul sacramento da essi ricevuto. Dice il n. 8: «I presbiteri, costituiti nell’Ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono legati tra loro nella profonda [intima] fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un solo presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo» (AAS 58 [1966], p. 1003). Questa fraternità è «profonda» perché fondata sull’ordinazione sacramentale, ma si manifesta poi anche a livello funzionale, con la collaborazione e l’aiuto reciproco tra i presbiteri, in particolare quelli che formano il presbiterio di una Chiesa locale. Questa comunione sacerdotale non si restringe all’ambito diocesano: i presbiteri sono uniti in fraternità sacramentale in modo ontologico e non solo giuridico. Il Concilio perciò ricorda che «il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione, non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una missione di salvezza vastissima ed universale [...], infatti qualsiasi ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli» (PO 10: AAS 58 [1966], p. 1008). Questo insegnamento è molto importante e si coordina col precedente: il presbitero (in particolare il presbitero diocesano) vive ed opera radicato in una Chiesa particolare – che comunque non avrebbe senso separata dalla Chiesa universale – e legato al suo vescovo ed al suo presbiterio, ma ciò non implica affatto una visione ristretta o persino localistica del ministero presbiterale. PO, al contrario, insegna a più riprese che i presbiteri devono coltivare uno sguardo universale (si vedano in particolare i nn. 6; 10; 14; 17).
Il Decreto tocca di nuovo il tema della fraternità sacramentale ed operativa ai nn. 12; 15 e 22. Questo tema è di grande importanza ed è stato ampiamente studiato dopo il Concilio. Esso influisce certamente anche su ciò che PO dice sul rapporto tra i presbiteri e i vescovi (nn. 5; 7; 12; 15); tra i presbiteri e la Chiesa (nn. 3; 9; 14); e tra i presbiteri e il mondo (nn. 3; 9; 17): tutti aspetti molto interessanti, che qui non è possibile esaminare in modo adeguato.
5) Una quinta ed ultima conseguenza, che deriva dalla sottolineatura del carattere sacramentale del presbiterato, riguarda la vita spirituale dei presbiteri, che deve tendere alla perfezione della santità. I riferimenti sono numerosi, ma il paragrafo più importante è il n. 12. Vi si dice che i sacerdoti, già in forza della grazia del Battesimo, hanno l’obbligo di tendere alla santità, al pari di tutti gli altri fedeli. «Ma i sacerdoti sono tenuti ad acquisire questa perfezione per una speciale ragione: poiché, consacrati da Dio in modo nuovo con la ricezione dell’Ordine, essi sono costituiti strumenti vivi di Cristo Eterno Sacerdote, affinché possano proseguire attraverso i tempi l’opera mirabile di Lui, che ha reintegrato con superna efficacia l’intera comunità degli uomini» (AAS 58 [1966], pp. 1009-1010). Si tratta di un’applicazione del detto evangelico: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (Lc 12,48). D’altro canto, il Concilio ricorda che, nella dotazione fatta al presbitero, v’è anche la grazia di stato sacerdotale, «in virtù della quale, mentre è a servizio della gente a lui affidata e dell’intero popolo di Dio, egli può avvicinarsi più efficacemente alla perfezione di Lui [Cristo], del quale fa le veci [partes sustinet]» (AAS 58 [1966], p. 1010).
Si conferma di nuovo, così, la dottrina della maggiore eccellenza dello stato sacerdotale, che PO aveva già ripreso dalla tradizione magisteriale e teologica: un’eccellenza che purtroppo non si verifica de facto in tutti i singoli casi, ma che è di per sé consistente, perché fondata sulla differenza «di essenza e non solo di grado»[31] che esiste tra il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale. Il n. 12 di PO precisa che i ministri realizzano la propria vocazione non solo pascendo il gregge, ossia nell’esercizio del munus pastorale, ma anche coltivando la santità personale. Si dice che i presbiteri «mortificano in se stessi le opere della carne e si dedicano totalmente al servizio degli uomini, e così possono progredire nella santità di cui sono stati dotati in Cristo, fino all’uomo perfetto» (ibid.). Non basta dunque, per la santità del presbitero, l’esercizio della carità pastorale; essa deve coniugarsi con la conformazione a Cristo, con la continua conversione a Lui, che passa anche per la mortificazione in se stessi delle opere della carne. Questa ricerca della santità è di grande importanza: «Sebbene infatti la grazia di Dio possa realizzare l’opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, tuttavia Dio preferisce ordinariamente manifestare le sue meraviglie attraverso coloro che, fattisi più docili all’impulso ed alla guida dello Spirito Santo, per la loro intima unione con Cristo e la santità di vita, possono dire con l’Apostolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”» (ibid.).
Questa autospoliazione dei presbiteri – per la quale non opera più in essi principalmente il loro io, bensì quello di Cristo, la cui Persona essi portano in se stessi – si verifica nell’attitudine a non agire, nella vita presbiterale, secondo il proprio gusto o le proprie inclinazioni, o peggio ancora per propria utilità, ma facendo in modo che, attraverso il proprio ministero, appaiano ed agiscano sempre più Cristo e la Chiesa. A questi aspetti il Decreto dedica diversi riferimenti, tra i quali si possono segnalare i nn. 4; 6; 9; 13; 15.
Dobbiamo qui rinunciare a presentare numerosi altri aspetti, in particolare le indicazioni pratiche, presenti in PO. Facciamo notare, in conclusione, che il Decreto non si distacca in nulla dalla dottrina ecclesiale tradizionale sul presbiterato, che anzi riprende con convinzione e ampiezza. Questo è il tratto di grande continuità. Vi è anche un tratto di novità, declinato in chiave pastorale, cioè in relazione alle concrete esigenze dei presbiteri nel nostro tempo. Coerentemente col modello ecclesiologico conciliare, poi definito «ecclesiologia di comunione», PO sottolinea particolarmente l’aspetto comunionale della vita presbiterale. Lo si vede già dalle prime due parole, che rappresentano anche il titolo del Decreto: l’Ordine dei Presbiteri. Si tratta qui non solo del sacerdote considerato in sé, ma del sacerdote all’interno dell’Ordine presbiterale e, nel caso egli appartenga al clero secolare, all’interno di un presbiterio diocesano. Ciò si vede anche dal fatto che i termini «presbitero» e «sacerdote» ricorrono poche volte al singolare, mentre il Decreto si riferisce in genere ai «presbiteri» e «sacerdoti» al plurale, come a sottolineare il carattere di corpo dell’insieme dei presbiteri[32]. Come abbiamo avuto modo di illustrare, la fraternità sacerdotale e l’unità nel corpo presbiterale è intima, ossia si fonda in primo luogo sulla sacramentalità del presbiterato e non soltanto su una motivazione estrinseca, ossia su aspetti funzionali. Il Decreto conciliare, dunque, apporta questo interessante elemento di novità nella continuità, inserendo la dottrina tradizionale sul sacerdote in una visione pastorale sui sacerdoti. Non v’è opposizione tra questi due aspetti. La dottrina pastorale sui sacerdoti non si regge senza quella teologica sul sacerdote e quest’ultima trova nell’altra feconde applicazioni e conseguenze pratiche per la vita e la missione dei presbiteri (oggetto del Decreto), conseguenze puntualmente tirate dal testo conciliare.
3. Tendenze
teologiche post-conciliari
Negli anni Settanta, il presbiterato ha conosciuto una crisi di proporzioni forse mai viste prima nella storia della Chiesa. Il fatto che ciò sia avvenuto poco dopo la conclusione del Vaticano II, ci induce a dire certamente post hoc, ma non è altrettanto certo che si possa sostenere anche il propter hoc. La successione temporale non sempre indica un rapporto di causalità e quindi il fatto che si sia sperimentata una diffusa «crisi di identità del presbitero»[33] dopo l’ultimo Concilio non significa che l’unica spiegazione plausibile sia che tale crisi è sorta a causa del Vaticano II. Bisogna al contrario riconoscere che essa si è manifestata, oltre che per ragioni culturali e sociali, anche perché ci si è presto staccati dal testo conciliare, per sviluppare altre visioni del sacerdozio. La crisi di identità del presbitero – che per molti versi perdura fino ad oggi – ha fatto sorgere molte domande presso i teologi ed i pastoralisti e ha prodotto una deviazione nelle pubblicazioni sul ministero ordinato: la bibliografia sul sacerdozio si è orientata, tra fine anni Settanta e gli anni Ottanta, non più ai testi conciliari, se non in obliquo, bensì al tema dei ministeri nel Nuovo Testamento ed allo studio sulla ragion d’essere del ministero ordinato nella Chiesa[34].
In generale, gli studi teologici sul presbiterato si sono polarizzati attorno a due nuclei: quello cristologico e quello ecclesiologico[35]. Gli studi della prima serie (quella cristologica) si sono sviluppati su due linee principali: una che sottolinea soprattutto il carattere cultuale del ministero ordinato, intentendolo soprattutto come sacerdozio; e un’altra che sviluppa maggiormente la categoria di rappresentanza, in una riflessione che fa leva sul carattere missionario e pastorale del presbiterato. Stando alla lettura che abbiamo effettuato di LG e PO, in base alla bimillenaria tradizione della Chiesa, il primo modello appare essere più adeguato, anche se bisogna evitare alcuni errori in cui si può incorrere, se esso viene mal applicato. Nel modello «sacrale-sacerdotale», si comprende il presbitero in base a quel sacerdozio che Cristo ha istituito e trasmesso innanzitutto agli apostoli e poi, da questi, ai loro successori. Fondamentale in quest’ottica è il testo della Lettera agli Ebrei, il cui valore in merito alla teologia del sacerdozio cristiano è stato spesso contestato ai nostri tempi, ma che – come abbiamo visto – è invece affermato con chiarezza dalla tradizione magisteriale e teologica. È chiaro che in quest’ottica l’identità del sacerdote cattolico si comprende in relazione a Cristo: il presbitero è alter Christus perché – come dice PO – porta in sé la persona di Cristo[36]. Il limite che viene fatto notare da diversi studiosi recenti consiste nel fatto che alcuni rappresentanti di questa impostazione teologica intendono il munus sanctificandi come l’«essere» del presbitero e i munera docendi et regendi solo come il «fare», mettendo a rischio l’unità dei tria munera. Quest’ultima applicazione del modello sacrale o sacerdotale della teologia del presbiterato non coincide perfettamente con i testi sul presbiterato del Vaticano II, i quali parlano del carattere apicale del munus sanctificandi, ma non lo separano nettamente dagli altri due munera.
Per questo altri teologi, pur rimanendo all’interno del polo interpretativo cristologico, hanno preferito sviluppare la teologia del presbiterato cattolico sul modello della rappresentanza (modello missionario-pastorale), che – come si è visto – veniva utilizzato già nel Catechismo Tridentino[37]. Tra questi autori, spicca il nome di Joseph Ratzinger[38]. Egli ha assunto la categoria della «missione di Cristo» come punto di partenza della sua teologia del sacerdozio ministeriale. Il ministro si comprende innanzitutto come inviato. La missione costituisce la natura del ministero ordinato, e questa missione è compresa sempre in base al polo cristologico: è Cristo, l’Inviato del Padre, che è presente nel ministro (rappresentanza vicaria) e continua attraverso di lui la sua missione. In questo modo si evita anche l’alternativa tra aspetti ontologici e funzionali del sacerdozio cattolico. È di tutto rilievo che Ratzinger abbia riproposto questa linea interpretativa anche da Pontefice, nell’Udienza generale del mercoledì seguente l’Apertura solenne dell’Anno Sacerdotale. Il Papa ha richiamato esplicitamente anche i suoi studi da privato teologo in materia, dicendo:
«In un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale, la “funzionalità” diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale. Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono che esistono “da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione… Dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento” (J. Ratzinger, «Ministero e vita del Sacerdote», in Elementi di Teologia fondamentale. Saggio su fede e ministero, Brescia 2005, p. 165). Anche lo slittamento terminologico dalla parola “sacerdozio” a quelle di “servizio, ministero, incarico”, è segno di tale differente concezione. Alla prima, poi, quella ontologico-sacramentale, è legato il primato dell’Eucaristia, nel binomio “sacerdozio-sacrificio”, mentre alla seconda corrisponderebbe il primato della Parola e del servizio dell’annuncio.
A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno [segue citazione di PO 2 ...].
Ci chiediamo allora: “Che cosa significa propriamente, per i sacerdoti, evangelizzare? In che consiste il cosiddetto primato dell’annuncio”? Gesù parla dell’annuncio del Regno di Dio come del vero scopo della sua venuta nel mondo e il suo annuncio non è solo un “discorso”. Include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire: i segni e i miracoli che compie indicano che il Regno viene nel mondo come realtà presente, che coincide ultimamente con la sua stessa persona. In questo senso, è doveroso ricordare che, anche nel primato dell’annuncio, parola e segno sono indivisibili. La predicazione cristiana non proclama “parole”, ma la Parola, e l’annuncio coincide con la persona stessa di Cristo, ontologicamente aperta alla relazione con il Padre ed obbediente alla sua volontà. Quindi, un autentico servizio alla Parola richiede da parte del sacerdote che tenda ad un’approfondita abnegazione di sé, sino a dire con l’Apostolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Il presbitero non può considerarsi “padrone” della parola, ma servo. Egli non è la parola, ma, come proclamava Giovanni il Battista, del quale celebriamo proprio oggi la Natività, è “voce” della Parola: “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri ” (Mc 1,3).
Ora, essere “voce” della Parola, non costituisce per il sacerdote un mero aspetto funzionale. Al contrario presuppone un sostanziale “perdersi” in Cristo, partecipando al suo mistero di morte e di risurrezione con tutto il proprio io: intelligenza, libertà, volontà e offerta dei propri corpi, come sacrificio vivente (cf. Rm 12,1-2). Solo la partecipazione al sacrificio di Cristo, alla sua chènosi, rende autentico l’annuncio! E questo è il cammino che deve percorrere con Cristo per giungere a dire al Padre insieme con Lui: si compia “non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi” (Mc 14,36). L’annuncio, allora, comporta sempre anche il sacrificio di sé, condizione perché l’annuncio sia autentico ed efficace.
Alter Christus, il sacerdote è profondamente unito al Verbo del Padre, che incarnandosi ha preso la forma di servo, è divenuto servo (cf. Fil 2,5-11). Il sacerdote è servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà di Cristo, nella preghiera, nello “stare cuore a cuore” con Lui. È questa allora la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la partecipazione all’offerta sacramentale dell’Eucaristia e la docile obbedienza alla Chiesa»[39].
Come si evince dal lungo testo citato, il Papa riprende dai suoi studi teologici l’impostazione di una teologia del presbiterato secondo il polo cristocentrico e declinata in base al modello missionario-pastorale della rappresentanza. Il Santo Padre mette in evidenza, tuttavia, quanto resta imprescindibile: il carattere sacrale del sacerdozio. Tra le altre cose, Benedetto XVI cita l’espressione alter Christus, tipica del modello sacrale-cultuale, che quindi non lascia adito a dubbi sull’insegnamento proposto dal Pontefice. In sintesi, si può dire che il Papa ha ricordato l’inscindibilità del binomio identità-missione. Il presbiterato va compreso ontologicamente quanto all’identità sacerdotale, derivante dalla ricezione del sacramento dell’Ordine. Simile identità è finalizzata alla missione e da essa inseparabile[40]. La negazione di uno di questi due aspetti porta a visioni riduttive del ministero ordinato. Papa Benedetto ha ribadito questo insegnamento nell’Udienza generale del 1° luglio:
«In verità, proprio considerando il binomio “identità-missione”, ciascun sacerdote può meglio avvertire la necessità di quella progressiva immedesimazione con Cristo che gli garantisce la fedeltà e la fecondità della testimonianza evangelica. Lo stesso titolo dell’Anno Sacerdotale – Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote – evidenzia che il dono della grazia divina precede ogni possibile umana risposta e realizzazione pastorale, e così, nella vita del sacerdote, annuncio missionario e culto non sono mai separabili, come non vanno mai separati identità ontologico-sacramentale e missione evangelizzatrice. Del resto il fine della missione di ogni presbitero, potremmo dire, è “cultuale”: perché tutti gli uomini possano offrirsi a Dio come ostia viva, santa e a lui gradita (cf. Rm 12,1)»[41].
La visione equilibrata e tendenzialmente completa offerta da Benedetto XVI mostra, per converso, la parzialità delle letture spesso operate negli ultimi decenni nell’altro polo interpretativo, quello ecclesiologico. Spesso negli anni Settanta i candidati al sacerdozio, o i presbiteri nei ritiri mensili del clero, si sono sentiti ripetere che il sacerdote, più che rappresentante di Cristo (come insegna il Vaticano II), lo sarebbe della comunità, in quanto presidente ma anche espressione di essa. In questo modo, ci si avvicinava al concetto protestante di ministero, ma si perdevano di vista aspetti essenziali della tradizione teologico-magisteriale cattolica, anche a livello di esercizio concreto del ministero, con la conseguente sottomissione del sacerdote alla comunità, della quale egli doveva essere interprete, più che guida, ed alla quale doveva rendere conto.
Non di rado, poi, alcune impostazioni teologiche si sono proposte la sistematica desacralizzazione e persino «desacerdotalizzazione» del ministero presbiterale. Il presbiterato è stato interpretato preponderantemente, quando non esclusivamente, in modo funzionale e non ontologico. Spiccano, tra gli studiosi che esprimono questa linea e che naturalmente presentano anche notevoli differenze tra loro, i nomi di Karl Rahner[42], Edward Schillebeeckx[43], Hans Küng[44], Leonardo Boff[45] ed altri. È qui impossibile dare conto, anche in maniera puramente schematica, delle loro proposte. Possiamo solo dire che, in termini generali, una visione principalmente funzionale del presbiterato non coincide né con i testi del Vaticano II, né con la bimillenaria tradizione magisteriale e teologica da cui esso è scaturito e della quale rappresenta la più recente manifestazione conciliare. Citiamo ancora Benedetto XVI:
«Avendo ricevuto un così straordinario dono di grazia con la loro “consacrazione”, i presbiteri diventano testimoni permanenti del loro incontro con Cristo. Partendo proprio da questa interiore consapevolezza, essi possono svolgere appieno la loro “missione”, mediante l’annuncio della Parola e l’amministrazione dei Sacramenti. Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società. La pagina evangelica, che abbiamo ascoltata all’inizio, sta invece a richiamare i due elementi essenziali del ministero sacerdotale. Gesù invia, in quel tempo e oggi, gli Apostoli ad annunciare il Vangelo e dà ad essi il potere di cacciare gli spiriti cattivi. “Annuncio” e “potere”, cioè “parola” e “sacramento” sono pertanto le due fondamentali colonne del servizio sacerdotale, al di là delle sue possibili molteplici configurazioni»[46].
4. Risvolti
concreti nella pastorale e nella formazione al presbiterato
Anche per quanto riguarda quest’ultimo paragrafo, come per tutti i precedenti, non si ha né si potrebbe avere alcuna velleità di presentare un discorso organico e compiuto. Facciamo solo pochi cenni ad un tema di grande importanza e che merita le dovute riflessioni nelle sedi opportune.
L’azione pastorale dei presbiteri e la formazione dei candidati al presbiterato è strettamente connessa con la visione che si ha dell’identità e del ruolo del ministro ordinato. La linea magisteriale sfociata nel grande Concilio di Trento ha impresso una chiara immagine del sacerdote ed ha esercitato un influsso incalcolabile sulla pastorale e sulla formazione. Il presbitero è lì considerato soprattutto come il pastore d’anime, l’autorità costituita su una porzione del gregge di Cristo, alla cui santificazione egli collabora, come strumento vivo del Signore, soprattutto attraverso la celebrazione dei sacramenti, massimamente l’Eucaristia e la Penitenza, ma anche attraverso gli altri munera a lui propri[47]. La formazione di seminario – si ricordi che fu proprio il Concilio Tridentino a dare impulso a questa istituzione – tendeva fondamentalmente a preparare sacerdoti che si dedicassero alla cura d’anime e sottolineava, giustamente e volentieri, la grandezza del sacerdote, scelto dal Signore per svolgere in seno alla Chiesa, a nome di essa e in obbedienza alla sua Gerarchia, un ruolo di straordinario valore e dignità. Il Padre della Chiesa di riferimento è qui san Giovanni Crisostomo, che ha scritto pagine splendide sulla dignità e grandezza del sacerdote.
Il limite di questa impostazione consiste nel pericolo del clericalismo e di una non sufficiente valorizzazione del laicato cattolico. Altro pericolo è quello di assolutizzare la figura sacerdotale, dimenticando che essa è chiamata a svolgere il proprio ruolo non solo «davanti» alla Chiesa, ma anche «dentro» di essa[48]. In terzo luogo, poteva non essere sempre visto con chiarezza il legame di fraternità sacerdotale, fondato sull’appartenenza all’Ordine dei presbiteri. Infine, se è vero che in questa visione il legame tra episcopato e presbiterato si basa sul comune sacerdozio, ossia sul potere di consacrare l’Eucaristia e di celebrare altri sacramenti (munus sanctificandi), meno evidente è il legame tra vescovi e presbiteri per quanto riguarda gli altri due munera. Il Vaticano II, come si è visto, ha voluto pertanto riaffermare la dottrina tradizionale sul presbiterato all’interno di una visione che tenesse conto di questi rischi, nonché delle mutate circostanze storiche. Non si tratta di una revisione dogmatica, ma di una presentazione nuova della dottrina di sempre e di una sua consistente applicazione pastorale. Simile insegnamento, quando è stato seguito ed applicato, ha portato frutti significativi per la vita sacerdotale e nella formazione preparatoria ad essa.
Come si è detto, tuttavia, spesso è subentrato un modello diverso. È stato presto abbandonato il testo del Concilio e si è delineata una visione principalmente – se non esclusivamente – funzionale del presbiterato. Lo stesso termine «sacerdozio» è stato spesso cassato dall’uso: si è parlato solo di «presbiteri» e non più di «sacerdoti». In molti seminari è stato insegnato che non bisognava assolutamente dire «diventare sacerdoti», bensì «essere ordinati presbiteri». La prima espressione veniva rigettata perché di sapore eccessivamente ontologico: il presbiterato è un servizio alla comunità, assegnato mediante il rito dell’ordinazione, più che un dono soprannaturale, marchiato indelebilmente nell’anima dell’ordinato con il carattere sacramentale. Nella formazione proposta in molti noviziati e seminari sono stati additati ad esempio, in maniera quasi esclusiva, profili di vescovi e sacerdoti immersi nell’animazione sociale e molto meno, o niente affatto, figure di sacerdoti – pure santi e santificatori – che si sono dedicati soprattutto al ministero sacramentale dell’Eucaristia e della Penitenza, o che sono stati maestri della Parola di Dio e dell’arte della preghiera e dell’ascesi cristiane. La presentazione di figure di sacerdoti quali sant’Alfonso Maria de’ Liguori, san Pietro Giuliano Eymard, san Giovanni Maria Vianney, san Pio da Pietrelcina, san Leopoldo Mandic non risultavano – e spesso ancora non risultano – nel quadro del programma formativo di molte case di formazione al presbiterato e, anche quando presenti, se ne sottolineava in particolare il risvolto attivo e l’opera caritativa – di certo di enorme importanza – più che la pratica di insegnamento della sana dottrina, la vita di preghiera, la cura delle anime e il culto divino. È infatti spesso successo non solo che si desse preminenza all’aspetto funzionale del sacerdozio sopra quello ontologico, ma anche che la missione sacerdotale fosse intesa più come un “andare verso il mondo”, che non un prendersi cura di coloro che sono già credenti e che bisogna aiutare a tendere verso la perfezione cristiana. Inoltre, si è sottolineata nella formazione l’unità tra i due sacerdozi (comune e ministeriale) e si è sfumata la loro distinzione, che il Concilio definisce «di essenza e non solo di grado» (LG 10). Mentre, cioè, il Vaticano II aveva dettato la linea di un rinnovamento della vita sacerdotale e, di riflesso, della formazione preparatoria ad essa – per la quale bisogna vedere il Decreto Optatam Totius – di fatto nel post-concilio si sono imposte altre teologie e quindi altre linee formative, che hanno immesso nella Chiesa tanti giovani sacerdoti la cui generosità di impegno si è trovata frustrata o disorientata nell’azione, non avendo ricevuto una chiara idea della propria identità presbiterale e, quindi, della propria missione.
Anche in questo caso, però, non bisogna applicare alla situazione descritta il detto latino post hoc ergo propter hoc. La difficile situazione, la «crisi di identità del presbitero» del post-concilio non trova la sua radice nei testi del Vaticano II, ma nella sovrapposizione ad essi di un’ermeneutica della discontinuità, che ha voluto separarsi dalla grande tradizione della Chiesa e dalla feconda rilettura che di essa fanno i testi conciliari, per proporne una diversa. Va però ricordato che «inquadrando la tradizionale dottrina del sacerdozio ministeriale nella prospettiva della missione, il Vaticano II non ha rifiutato la prospettiva del culto e della consacrazione, ma l’ha resa più dinamica ed ecclesiale»[49]. In sintesi, riprendendo ancora una volta la nota terminologia di Pastores dabo vobis 16, mentre i rischi del precedente modello possono sintetizzarsi nel pericolo di vivere un sacerdozio solo «davanti» e non anche «dentro» la Chiesa, i rischi di questo modello più recente implicano la possibilità di intendere il presbiterato solo «dentro» e non anche «davanti» alla Chiesa. Nelle attuazioni più radicali, poi, si perde perfino il riferimento determinante all’ecclesiologia e il ministero viene inteso esclusivamente «per il mondo», come azione non-religiosa verso il mondo e in favore della società: è la completa secolarizzazione del sacerdozio cattolico, lì dove non esiste più alcuna identità presbiterale. È chiaro che, all’interno di una visione simile, molti elementi tradizionali del sacerdozio cattolico – citiamo qui solo l’impegno del celibato[50] e l’obbligo dell’abito clericale – non hanno più una ragion d’essere convincente e perciò vengono messi in forte discussione. Ma anche la stessa vita spirituale, il tendere alla santità attraverso la vita di grazia, di contemplazione e di ascesi – caldamente raccomandate dal Concilio – non si inseriscono facilmente in un quadro simile. Un ministero presbiterale inteso in senso secolare non richiede tutte queste cose, che anzi possono essere intepretate come sottrazione di tempo prezioso da dedicare all’azione sociale, o come fuga dai problemi della “vita reale”.
In questo senso, l’impronta che il Santo Padre Benedetto XVI ha dato all’Anno Sacerdotale rivela ancora una volta l’approccio di un’ermeneutica della continuità, da operarsi nella lettura dei testi conciliari e nella loro attuazione pratica. In particolare, il riferimento qualificante al Curato d’Ars risulta estremamente significativo. A mo’ di conclusione, possiamo dunque riportare alcuni estratti dagli interventi più recenti del Papa, che ci permettiamo di evidenziare in alcuni passaggi.
Nel Discorso in cui ha reso nota l’indizione dell’Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha affermato:
«Per l’imposizione delle mani del Vescovo e la preghiera consacratoria della Chiesa, i candidati divengono uomini nuovi, divengono “presbiteri”. In questa luce appare chiaro come i tria munera siano prima un dono e solo conseguentemente un ufficio, prima una partecipazione ad una vita, e perciò una potestas. Certamente, la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate. Ma questa giusta precisazione dottrinale nulla toglie alla necessaria, anzi indispensabile, tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale».
In quel Discorso il Sommo Pontefice ha poi dichiarato di aver deciso di indire l’Anno Sacerdotale proprio con il fine di favorire la «tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero». Egli ha poi aggiunto:
«La missione ha le sue radici in special modo in una buona formazione, sviluppata in comunione con l’ininterrotta Tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuità. In tal senso, è importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa. Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa»[51].
Nella Lettera inviata ai sacerdoti per l’indizione dell’Anno ad essi dedicato, il Santo Padre ha innanzitutto ricordato, dinanzi agli scandali che a volte danno i sacerdoti, che
«Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi pastori, di religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di direttori spirituali illuminati e pazienti».
Il Papa ha poi additato il santo Curato d’Ars come modello di vita sacerdotale:
«Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, persona e missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro».
Benedetto XVI cita poi alcune espressioni di san Giovanni Maria Vianney, a riguardo della centralità della Messa per la vita sacerdotale:
«“Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio”, diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: “La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”. Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”. Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale».
A riguardo della vita ascetica del sacerdote, il Pontefice ricorda che il santo Curato
«cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa: “La grande sventura per noi parroci – deplorava il Santo – è che l’anima si intorpidisce”; ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione».
Il Papa ha poi menzionato altri aspetti, tra i quali quello della comunione dei presbiteri con i vescovi:
«Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro vescovo. Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva. Solo così i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo»[52].
Infine, nell’Omelia tenuta durante i Vespri della Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il Papa ha detto:
«Come non ricordare con commozione che direttamente da questo Cuore è scaturito il dono del nostro ministero sacerdotale? Come dimenticare che noi presbiteri siamo stati consacrati per servire, umilmente e autorevolmente, il sacerdozio comune dei fedeli? La nostra è una missione indispensabile per la Chiesa e per il mondo, che domanda fedeltà piena a Cristo ed incessante unione con Lui; questo rimanere nel suo amore esige cioè che tendiamo costantemente alla santità, a questo rimanere [nell’amore di Gesù] come ha fatto san Giovanni Maria Vianney»[53].
[1] La documentazione patristica completa sui primi tre secoli cristiani, assieme ad un’importante introduzione di ben duecento pagine, si trova in: E. Cattaneo, I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Paoline, Milano 1997.
[2] La sigla DS corrisponde, com’è noto, a: H. Denzinger – A. Schönmetzer (ed.), Enchiridion Symbolorum, Definitionum et Declarationum de rebus fidei et morum (P. Hünermann, ed.), EDB, Bologna 1995.
[3] Quest’ultima parte dell’insegnamento del Fiorentino – dedicata alla materia e forma del sacramento – va interpretata alla luce della Costituzione Sacramentum Ordinis di Pio XII, che ricorderemo di nuovo in seguito.
[4] Il Tridentino non insegna che la parola presbiteri vada interpretata in questo modo in ogni passo biblico. L’insegnamento riguarda solo l’uso del termine in Gc 5,14.
[5] Qui nell’ediz. T.S. Centi (ed.), Cathechismo Tridentino, Cantagalli, Siena 1981.
[6] Testo ufficiale in Acta Sanctae Sedis 29 (1896-1897), pp. 193-203.
[7] Si noti che l’Ordinale anglicano del 1552 aveva eliminato la consegna del calice e della patena agli ordinandi presbiteri e l’aveva sostituita con la consegna della Bibbia, segno evidente di un’errata comprensione dell’essenza del sacerdozio del Nuovo Testamento.
[8] Per l’analisi approfondita di questa Lettera Apostolica, cf. G. Rambaldi, Ordinazioni anglicane e sacramento dell'ordine nella chiesa. Aspetti storici e teologici a cento anni dalla bolla Apostolicae curae di Leone XIII, PUG, Roma 1995.
[9] Per un commento della Costituzione, che risolve anche l’apparente contrasto con i decreti del Concilio di Firenze, cf. G. Ferraro, Il sacerdozio ministeriale. Dottrina cattolica sul sacramento dell’ordine, Grafite, Napoli 1999, pp. 148-155.
[10] Ricordiamo ad esempio le Encicliche che tre Papi del XX secolo hanno pubblicato in occasione del proprio cinquantesimo di sacerdozio: la Haerent Animo di san Pio X (4 agosto 1908), l’Ad catholici sacerdotii di Pio XI (20 dicembre 1935) e la Menti Nostrae di Pio XII (23 settembre 1950).
[11] Il testo ufficiale dell’Enciclica è in AAS 51 (1959), pp. 545-579. Il Pontefice precisa lo scopo della Lettera dicendo di non voler tratteggiare tutti gli aspetti della vita sacerdotale, ma solo alcuni di essi, quelli cioè che in ogni epoca, ma particolarmente nel nostro tempo, risultano di importanza (cf. p. 549). I temi trattati sono distribuiti in tre sezioni, dedicate all’ascesi sacerdotale; alla preghiera e al culto eucaristico; allo zelo pastorale.
[12] Per
una storia della redazione di questo paragrafo, che riproduce anche numerosi «modi»
dei Padri conciliari, cf. A. Favale (ed.), I
sacerdoti nello spirito del Vaticano II, LDC, Leumann (TO) 1969, pp. 17-43.
[13] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 28: Acta Apostolicae Sedis (= AAS) 57 (1965), pp. 33-34. Sul tema si può vedere: K.J. Becker, «La differenza tra vescovo e sacerdote nel Decreto sul sacramento dell’Ordine del Concilio di Trento e nella Costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II», in Infallibile? Rahner, Congar, Sartori, Ratzinger, Schnackenburg e altri specialisti contro H. Küng, Paoline, Roma 1971, pp. 291-350; G. Ghirlanda, «Episcopato e presbiterato nella Lumen Gentium», Communio 59 (1981), pp. 53-70.
[14] Enchiridion Vaticanum, 1: Documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), EDB, Bologna 199716, p. 539, n. 354.
[15] L’ho sostenuto io stesso nel mio recente volume: La liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche, Fede e Cultura, Verona 2009.
[16] «Proprium officium sacerdotis est esse mediatorem inter Deum et populum»: Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, 22, 1: qui nell’ediz. bilingue La Somma Teologica (Domenicani italiani, ed.), 35 voll., ESD, Bologna 1984. L’opera di mediazione si svolge soprattutto nell’offerta del santo sacrificio: «In sacrificio offerendo potissime sacerdotis consistit officium»: ibid., 4 s.c.
[17] «Officium pontificis est preces ad Deum fundere»: Tommaso d’Aquino, Scriptum super Sententiis, III, 17, 1, 3, 1 s.c. 2: qui nell’ediz. bilingue Tommaso d’Aquino, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo e testo integrale di Pietro Lombardo, ESD, Bologna 2000, V, p. 898.
[18] Ad esempio, il Catechismo Tridentino afferma che i vescovi «sono chiamati anche pontefici, secondo l’uso dei pagani, che chiamavano così i capi dei sacerdoti» (§ 285).
[19] Per maggiori dettagli, cf. C. Folsom, «I libri liturgici romani», in Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo (ed.), Scientia liturgica. Manuale di liturgia, I: Introduzione alla liturgia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20033, pp. 322-330.
[20] San Tommaso d’Aquino riserva in genere il titolo di pontefici ai soli vescovi, tuttavia egli interpreta il sacerdozio che da Cristo è trasmesso a vescovi e presbiteri citando il brano di Eb 5,1 nella versione latina, in cui ricorre proprio la parola pontifex: «Omnis [!] pontifex...»: cf. Summa Theologiae, II-II, 86, 2; III, 22, 1.
[21] Questo non è affatto in contrasto con la dottrina della sacramentalità dell’episcopato, insegnata in LG 21, per la quale: «con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine, quella cioè che l’uso liturgico della Chiesa e la voce dei santi Padri chiama il sommo sacerdozio, la totalità del sacro ministero» (AAS 57 [1965], p. 25).
[22] Naturalmente si potrebbero citare altri brani, come il già menzionato LG 21, che esordisce affermando: «In episcopis igitur, quibus presbyteri assistunt, ...».
[23] Per la
storia della redazione del Decreto, cf. A. Favale (ed.), I sacerdoti nello spirito del Vaticano II, pp. 44-123; R.
Wasselynck, Les prêtres. Élaboration
du décret ‘Presbyterorum Ordinis’ de Vatican II, Desclée, Paris 1968.
[24] «Se è vero che l’evoluzione della società comporta necessariamente una certa evoluzione delle condizioni di vita e del comportamento sacerdotale, il prete rimane fondamentalmente il “prete di sempre”. Non sono le modifiche del mondo circostante che possono condurre ad una modifica della natura del sacerdozio»: J. Galot, Teologia del sacerdozio, LEF, Firenze 1981, p. 3.
[25] Circa il servizio a Cristo, cf. i nn. 1; 9; 12; 13; 14; 15. Per quanto riguarda il servizio ai fratelli, cf. i nn. 6; 9; 12; 15.
[26] Si possono consultare: B.D. Marliangeas, Clés pour une théologie du ministère. In persona Christi, in persona Ecclesiae, Beauchesne, Paris 1978; L. Loppa, “In persona Christi” – “Nomine Ecclesiae”. Linee per una teologia del ministero nel Concilio Ecumenico Vaticano II e nel magistero post-conciliare (1962-1985), PUL, Roma 1985.
[27] Per un’adeguata comprensione dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II, è necessario conoscere la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, Communionis notio, del 28 maggio 1992, pubblicata in AAS 85 (1993), pp. 838-850.
[28] Cf. ad esempio: P. Rabitti, Il prete: l’uomo della carità pastorale. Note sulla spiritualità del prete diocesano, EDB, Bologna 1980.
[29] Per le altre virtù necessarie al presbitero, si vedano i nn. 3; 6; 7; 12; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 19.
[30] La nota 27 del n. 4 afferma: «Dei presbiteri, in quanto sono cooperatori dei vescovi, si possono dire le stesse cose che si dicono dei vescovi» (AAS 58 [1966], p. 995).
[31] LG 10: AAS 57 (1965), p. 14. Cf. L. Bogliolo, «L’essenziale diversità tra sacerdozio gerarchico e sacerdozio comune», Divinitas 22 (1978), pp. 220-228.
[32] In PO si trova 111 volte il termine presbiteri al plurale e solo 7 volte al singolare.
[33] Cf. A. Favale – G. Gozzelino, Il ministero presbiterale. Fenomenologia e diagnosi di una crisi, LDC, Leumann (TO) 1972.
[34] Cf. E. Castellucci, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002, p. 249.
[35] Tra le rassegne più recenti, si può vedere: C. Scordato, «Teologia del presbiterato: orientamenti teologici postconciliari», in P. Sorci (ed.), Il presbitero nella Chiesa dopo il Vaticano II, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2005, pp. 145-196.
[36] Cf. G. Rambaldi, «‘Alter Christus’, ‘in persona Christi’, ‘personam Christi gerere’. Note sull’uso di tali e simili espressioni nel Magistero da Pio XI al Vaticano II e il loro riferimento al carattere», in J. Esquerda Bifet – V. de Sousa Alves (ed.), El carisma permanente del sacerdocio ministerial, Aldecoa, Burgos 1973, pp. 211-264.
[37] Aggiungiamo qui un altro testo a quelli citati precedentemente: «Questa potestà [sacerdotale] è duplice: di ordine e di giurisdizione. La prima si riferisce al Corpo reale di nostro Signore Gesù Cristo nella santa Eucaristia. La seconda riguarda esclusivamente il Corpo mistico di Gesù Cristo, equivalendo alla facoltà di governare e guidare il popolo cristiano verso l’eterna beatitudine del cielo. La potestà dell’Ordine però non si esaurisce nella facoltà di consacrare l’Eucaristia: ma vale a preparare e abilitare gli animi degli uomini a riceverla; e include tutto ciò che comunque si riferisce al sacramento eucaristico» (§ 274).
[38] Cf. i diversi contributi in J. Ratzinger, Elementi di Teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Queriniana, Brescia 2005; Id., «Natura del sacerdozio», in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Paoline, Milano 1991, pp. 75-93.
[39] Benedetto XVI, Udienza generale di mercoledì 24 giugno 2009 (corsivo nostro). Sul tema del «perdersi in Cristo», cf. anche Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa del Crisma del Giovedì Santo, 9 aprile 2009.
[40] Così si era espresso già Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, pubblicata il 25 marzo 1992 (testo completo in AAS 84 [1992], pp. 657-804): «Il sacerdote ha come sua relazione fondamentale quella con Gesù Cristo Capo e Pastore: egli infatti partecipa, in modo specifico ed autorevole, alla “consacrazione/unzione” [= sacerdozio] e alla “missione” [= rappresentanza] di Cristo. [...] La relazione del sacerdote con Gesù Cristo e, in Lui, con la sua Chiesa, si situa nell’essere stesso del sacerdote, in forza della sua consacrazione-unzione sacramentale, e nel suo agire, ossia nella sua missione o ministero» (n. 16: AAS 84 [1992], pp. 681-682).
[41] Benedetto XVI, Udienza generale di mercoledì 1° luglio 2009 (corsivo nostro).
[42] Cf. K. Rahner, «L’aggancio teologico per la determinazione dell’essenza del sacerdozio ecclesiastico», in Nuovi Saggi, Paoline, Roma 1973, IV, pp. 443-452; Id., «Considerazioni teologiche sulla figura del sacerdote di oggi e di domani», ibid., pp. 453-480; Id., «Sull’autocomprensione del sacerdozio ministeriale», ibid., 1975, V, pp. 567-591.
[43] Cf. E. Schillebeeckx, Il ministero nella Chiesa. Servizio di presidenza nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1981; Id., Per una Chiesa dal volto umano. Identità cristiana dei ministeri nella Chiesa, ibid., 1986.
[44] Cf. H. Küng, Preti: perché? Un aiuto, Dehoniane, Bologna 1971.
[45] Cf. L. Boff, «Una strutturazione: il carisma come principio di organizzazione», in Chiesa. Carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, Borla, Roma 1984, pp. 254-271.
[46] Benedetto XVI, Udienza generale di mercoledì 1° luglio 2009 (corsivo nostro).
[47] Secondo Jean Galot, la categoria di «pastore» è quella che rappresenta il miglior «principio di unità per comprendere ed esprimere l’insieme delle funzioni del sacerdote»: Teologia del sacerdozio, p. 142.
[48] Queste espressioni provengono dal n. 16 dell’Esortazione Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II (AAS 84 [1992], p. 681).
[49] E. Castellucci, Il ministero ordinato, p. 237.
[50] Resta sempre molto utile il saggio del cardinale A.M. Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, LEV, Città del Vaticano 1994.
[51] Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per il Clero, 16 marzo 2009 (corsivo nostro).
[52] Benedetto XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, 16 giugno 2009 (corsivo nostro).
[53] Benedetto XVI, Omelia nella celebrazione dei Vespri della solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, 19 giugno 2009 (corsivo nostro).