Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
La scelta del Santo Curato d’Ars come “icona” di
riferimento per l’anno sacerdotale, non ha mancato di destare qualche critica,
sia pure sommessa.
La sua cara immagine è sembrata ad alcuni troppo
oleografica, troppo datata, troppo “miracolistica”, per poter essere davvero
significativa nelle concrete situazioni in cui i Presbiteri devono oggi vivere
ed operare: l’immagine di un buon “protettore”, se si vuole, ma un modello
scarsamente imitabile.
Tanto più che lo stesso modello sembra poter avere
letture contrastanti: secondo alcuni sarebbe un modello difficile perché troppo
grondante di prodigi (ascesi prodigiosa, lotta prodigiosa col Maligno e col
male, prodigiosa capacita di introspezione nelle anime, prodigiosa resistenza
fisica e psichica nell’esercizio inesausto del ministero, e altro ancora);
secondo altri, invece, sarebbe un modello troppo limitato al vecchio cliché del
prete che celebra Messa, confessa, predica, prega, si mortifica e si dedica
alle opere di misericordia.
Ma la scelta del Santo Curato, patrono dei parroci, –
pur non disdegnando affatto i molteplici aspetti elencati – mira a porre in
risalto un aspetto più radicale e necessario: quello dell’identità profonda del
Presbitero.
Nella Lettera di
indizione dell’anno sacerdotale, inviata dal Santo Padre, leggiamo appunto
questo invito:
«Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al
Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san
Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua
totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione
tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del
suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in
atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera
analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si
tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente
dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità
generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella
soggettiva del ministro».
Ed è certo di grande utilità riflettere a come si sia
operata nel Santo Curato questa identificazione: in lui – nella percezione e
nell’esercizio del ministero – si sono soprannaturalmente amalgamati un abisso
di umiltà (convogliando perfino alcune sofferenze psichiche) e un impeto
straordinario di dignità, in modo che l’umiltà servisse tutta a far percepire e
a far risaltare l’immensa dignità del sacerdozio ricevuto ed esercitato, e la
percezione di tale dignità servisse a purificare e a rendere sacro e
incandescente (in senso propriamente “cristiforme”)
quell’abisso di umiltà nel quale, sempre più, egli discendeva.
Che il “sacerdozio
ministeriale” fosse tutto da vivere e da spendere ad esclusivo servizio del
“sacerdozio comune” dei fedeli, il
Santo Curato non avrebbe forse saputo spiegarlo con esatte espressioni
teologiche, ma sapeva mostrarlo con la sua inesauribile dedizione, spinta a tal
punto che egli si sentiva personalmente responsabile e partecipe della lotta
tra il bene e il male che i suoi parrocchiani e penitenti ingaggiavano nel
terreno “sacro” della sua parrocchia o nel segreto delle loro coscienze: per
loro e con loro egli riviveva il sacrificio eucaristico e, con loro e per loro,
pensava di dover espiare, perfino facendo penitenza”al loro posto”, quand’era necessario!
Un’altra caratteristica, per cui il Santo Curato è
assieme protettore e modello attualissimo di identità sacerdotale, riguarda la
questione della “santità dei Presbiteri” e della via propria che essi devono
saper percorrere verso tale santità.
Già Giovanni XXIII nella sua prima Lettera Enciclica (Sacerdotii
nostri primordia), pubblicata nel 1959, in occasione del
primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, suggeriva: “Se, per
raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è
imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno
a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della
santificazione cristiana”.
Era un argomento bisognoso di qualche approfondimento
e, in quello stesso anno, a Milano, il Card. Montini – illustrando anch’egli
l’esperienza del Santo Curato – spiegò così la questione ai suoi preti:
«Noi possiamo trovare sorgente di santità nell’oggetto
del nostro Sacerdozio, nella carità di cui il nostro Sacerdozio è impregnato.
Il Sacerdozio pastorale è quello che riceve di più, essenzialmente,
direttamente la carità di Dio che difende. È quello che realizza di più
l’infusione dell’amore di Dio verso gli uomini e che mettiamo nella linea
perpendicolare di questa intenzione divina. Il Signore vuol salvare il mondo e
sceglie qualcuno. Siamo noi. Questa carità passa direttamente per il sacerdozio
che è destinato a prendere tutta questa carità e a riversarla agli altri. Non
c’è una maggiore carità che quella di dare la propria vita per gli altri,
parola di Cristo. Noi siamo su la traiettoria non della sistematica della
santificazione, ma siamo su la linea percorsa da Cristo ed a noi insegnata da
Cristo per essere santi: la Sua santità. Possiamo anche nella nostra vita, così
com’è, così descritta e così regolata dal Diritto Canonico, trovare sorgente
inesauribile di santità. E guardate che dobbiamo trovarla. (...). Noi siamo
degli impegnati, lo dice San Tommaso del resto, il dottore che ha pur magnificato
e difeso l’altezza e la dignità dei voti religiosi e dello stato religioso: è
più grande l’impegno di santità che si richiede nel Sacerdote al servizio delle
anime che non quello dello stesso religioso. Con questa spiegazione, che quella
è una santità in acquisto, in via di acquisizione, questa, ed è qualche cosa
che ci rende perfino commossi e trepidanti e quasi come il Curato d’Ars desiderosi
di fuggire, ci rende obbligati a praticare la santità. La dovremmo possedere,
la dovremmo rendere immanente nel nostro sacerdozio la santità e la carità. Noi
siamo nell’esercizio della santità, in
exercenda perfectione, non in acquirenda
perfectione, come lo stato religioso. E se siamo meno sorretti da mezzi che
organizzano e che allontanano pericoli e rendono possibili virtù, esempi, organizzazione
di conforti, eccetera, eccetera, dobbiamo tanto di più, tanto di più
galvanizzare in noi questo senso della vicinanza di Cristo, dell’imitazione
Sua, del ricevere da Lui ogni grazia e del vivere secondo Lui e del
sacrificarci come ha fatto Lui, se vogliamo essere pari alla nostra vocazione.
Questo significa appunto che dobbiamo avere una adesione interiore alla nostra
professione di Sacerdoti in cura d’anime. Guardate che è frequente fra noi
preti uno stato d’animo, direi, di evasione, di lamento, di supposizione, che
se fossimo in un altro posto andrebbe molto meglio (...). Questo è inganno,
figliuoli miei e fratelli miei, questa non è la psicologia del Curato d’Ars. Il
Curato d’Ars ci insegna che bisogna incumbere
sopra la propria missione, qualunque sia, ed essere, direi, paghi di questa,
dandoci a fondo e non desiderando nessuna evasione»[1].
Alcuni anni dopo il Decreto conciliare Presbyterorum Ordinis avrebbe affermato
esplicitamente che “santitatem propria
ratione consequentur presbyteri munera sua sincere et indefesse exercentes” (PO,
13).
L’intuizione era fondamentale, perché indicava la
missione pastorale come “costitutivo primario dell’identità spirituale del
Presbitero”, anche se inizialmente si continuò ad illustrarla dal punto di
vista degli atteggiamenti soggettivi del Presbitero più che dal punto di vista
dell’oggettivo esercizio del ministero[2].
Col tempo si sarebbe precisato meglio quale fosse
l’aspetto decisivo: quello di chiedere al Presbitero l’oggettiva santità di
versare tutta la propria esistenza nella missione: diventare santo, cioè, non
“a lato dell’esercizio del ministero”, ma “nell’esercizio stesso del
ministero”, “in modo immanente all’esercizio del ministero”.
Opportunamente, perciò, la Lettera di indizione dell’anno sacerdotale riprende anche il tema
dei consigli evangelici e li illustra nel senso appena indicato.
Così la “povertà
evangelica”, chiesta a un Presbitero, non significa il disprezzo o il non
utilizzo dei beni terreni, e nemmeno soltanto il distacco da essi, ma consiste
nella cura con cui egli sa mantenersi personalmente povero, mentre distribuisce
al suo popolo tutti i doni e i beni che gli sono necessari. Del Santo Curato ci
viene detto, infatti, che “era ricco per dare agli altri ed era molto
povero per se stesso”. E’
necessario tuttavia sottolineare che l’abbondanza dei beni di cui egli disponeva
non era anzitutto quella delle numerose offerte che riceveva in dono e a sua
volta ridonava, ma era soprattutto l’abbondanza della ricca mensa della Parola
di Dio, di cui egli per primo si saziava (“Siamo veramente pervasi dalla
Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo
siano il pane e le cose di questo mondo?», ci chiede il Papa) e l’abbondanza del perdono divino che, in
maniera munifica e incessante, egli dispensava, estenuandosi in tale ministerialità.
Allo stesso modo, il sacro celibato liberamente
accettato e scelto dal Ministro, non è penosa assenza di coniugalità e di
paternità, ma è offerta consapevole del proprio cuore al Cuore Divino, per
poter testimoniare alla comunità ecclesiale la centralità anche affettiva di
Cristo. Nel Santo Curato essa si esprimeva, appunto, come “castità eucaristica”: «Si
può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente
l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo
stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che “la castità
brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano quando egli si volgeva
a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato».
Infine, l’Obbedienza,
generosamente promessa dal Presbitero, non è privazione di libertà, ma è persuasione
gioiosa che la Volontà del Padre – quando essa ci raggiunge nella sua Chiesa e
per mezzo di essa – merita ogni “intelligente
cordialità” ed ogni assenso operoso, soprattutto quando ci si dedica
all’opera dell’evangelizzazione in persona
Christi. Per san Giovanni Maria
Vianney l’obbedienza era già tutta
offerta nella disponibilità a perseverare in un ministero di cui si sentiva
profondamente indegno e incapace (e la stessa ricorrente tentazione di fuggire
non sminuiva il suo desiderio di obbedire, ma accresceva la purezza della sua
dedizione). Poi essa si esprimeva e si dettagliava «nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero» ed
era già tutta assicurata nella preghiera con cui soleva cominciare ogni
giornata dicendo: «Tutto per farti piacere mio Dio. Tutte le mie azioni
con te».
Sappiamo che «La regola d’oro per una vita obbediente gli
sembrava questa: Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio». E forse
proprio quest’ultima espressione può essere scelta come descrizione sintetica
dell’identità del Presbitero, come l’avrebbe volentieri dipinta il Santo Curato:
Il sacerdote è colui che educa se stesso e il suo popolo a fare solo ciò (e
tutto ciò) che “può essere offerto degnamente al buon Dio”, in totale e umilissima
unione con Cristo Sacerdote.
[1] Discorso del 18 novembre 1959, in Discorsi e scritti milanesi (1954-1963),
Brescia, Istituto Paolo VI, 1997, pp. 3153-3169 (citazione alle pagine
3162-63).
[2] La Presbyterorum
Ordinis, infatti, continua a spiegare i “consigli
evangelici” rivolti ai presbiteri (nn. 15, 16, 17) alla maniera
tradizionale, come “consigli” dati per la loro personale santificazione.
Purtroppo anche il Codice di Diritto Canonico, quando riprenderà il testo
conciliare, sostituirà la bella formulazione “munera sua sincere et
indefesse exercentes” (PO 13), con
la formula “ministerii pastoralis officia
fideliter et indefesse adimpleant”: «Questa duplice correzione (sostituire
“sincere et indefesse” con “fideliter et indefesse”, e sostituire “munera” con “officia”) conferisce un senso diverso al testo
del Concilio. Fa dipendere, infatti, la santificazione del Presbitero dalla
fedeltà morale nella pratica dei suoi doveri di stato, più che dall’autenticità
dell’esercizio delle funzioni presbiterali in quanto tali” (E. Corecco, L’identità ecclesiologica del Presbitero,
in Communio, n. 112, luglio-agosto
1990, pp. 33-51).