Conferenza
vescovi novelli 11 settembre 2010 Roma
CONFERENZA DEL CARDINALE CLÁUDIO HUMMES,
IL10 SETTEMBRE 2010, NEL SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO, DELLA CONGREGAZIONE PER
L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, PER I VESCOVI DEI TERRITORI DIPENDENTI, E L’11
SETEMBRE 2010 NEL CONVEGNO PER I VESCOVI NOVELLI, PROMOSSO DALLA CONGREGAZIONE
PER I VESCOVI, A ROMA
Tema:
IL VESCOVO
PADRE, FRATELLO ED AMICO DEI SUOI SACERDOTI
Carissimi
Fratelli Vescovi Novelli,
L’Anno
Sacerdotale si è concluso nel mese di giugno scorso. Ha lasciato senz’altro un
importante messaggio a tutta la Chiesa, e perfino alla società odierna, sull’identità del presbitero e sulla sua missione, oltre aver messo in luce la
necessità di un’attenzione più grande ai sacerdoti, perché possano rinnovarsi costantemente,
anzitutto nella loro specifica spiritualità, e sentirsi incoraggiati e
preparati per la nuova evangelizzazione in un mondo culturalmente cambiato, come
per la missione stricto sensu nei paesi e negli ambienti non
ancora evangelizzati.
In tale
contesto, la responsabilità del vescovo riguardo ai suoi presbiteri mostra
quanto sia importante per voi, novelli vescovi, riflettere sulla necessità di
attenta cura dei vostri presbiteri. Questa è la ragione perché mi è stato
chiesto di parlarvi sul tema “Il Vescovo padre, fratello ed amico dei suoi
sacerdoti”.
Vorrei
subito richiamare alla vostra memoria ciò che dice sul tema l’Esortazione
Apostolica Post-sinodale “Pastores Gregis”
(2003), del sempre ricordato Venerabile Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II. “Non
è senza ragione che il decreto conciliare Christus
Dominus, offrendo la descrizione della Chiesa particolare, la indica
come comunità di fedeli affidata alla cura pastorale del Vescovo «cum
cooperatione presbyterii». Esiste, infatti, tra il Vescovo e i presbiteri
una communio sacramentalis in virtù del sacerdozio ministeriale o
gerarchico, che è partecipazione all'unico sacerdozio di Cristo e pertanto,
anche se in grado diverso, in virtù dell'unico ministero ecclesiale ordinato e
dell'unica missione apostolica. […]. Il Vescovo cercherà sempre di agire coi
suoi sacerdoti come padre e fratello che li ama, li ascolta, li accoglie, li
corregge, li conforta, ne ricerca la collaborazione e, per quanto possibile, si
adopera per il loro benessere umano, spirituale, ministeriale e economico”. L'affetto
privilegiato del Vescovo per i suoi sacerdoti si manifesta come accompagnamento
paterno e fraterno nelle tappe fondamentali della loro vita ministeriale, a
partire dai primi passi nel ministero pastorale. Fondamentale resta la formazione permanente dei presbiteri,
che costituisce per tutti come una «vocazione nella vocazione» perché, nelle
sue differenti e complementari dimensioni, tende ad aiutare il prete ad “essere”
e a “fare” il prete secondo lo stile sacerdotale di Gesù. Ogni Vescovo diocesano ha tra i suoi primi doveri la
cura spirituale del suo presbiterio: « Il gesto del sacerdote che pone le
proprie mani nelle mani del Vescovo, nel giorno dell'ordinazione presbiterale,
professandogli “filiale rispetto e obbedienza”, a prima vista può sembrare un
gesto a senso unico. Il gesto in realtà impegna entrambi: il sacerdote e il
Vescovo. Il giovane presbitero sceglie di affidarsi al Vescovo e, da parte sua,
il Vescovo si impegna a custodire queste mani »” (n.47).
Questo
testo di Giovanni Paolo II mostra chiaramente il vincolo sacramentale che sta
alla base del rapporto tra il vescovo e il suo presbiterio, un rapporto che
crea una vera comunione e si traduce, per il vescovo, nell’obbligo di amare i
suoi presbiteri e di vegliare su di loro come padre, fratello ed amico. La Lumen Gentium del Concilio Vaticano II
afferma: “Il vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come
figli ed amici, come il Cristo chiama i suoi discepoli non servi, ma amici”
(LG, 28).
Oggi,
infatti, i nostri presbiteri hanno bisogno di una speciale e amorevole
attenzione. In molti paesi il loro numero cala sempre di più e la loro età
media è aumentata in modo preoccupante. D’altra parte, la società contemporanea
post-moderna, secolarista e laicistica, relativistica ed indifferente riguardo
alla religione, rende sempre più faticosi ed esigenti il lavoro e la vita dei
sacerdoti. È vero che nelle regioni di missione
del mondo, in modo generale, la religiosità è presente e rimane forte e molto
estesa, alle volte anche con un numero crescente di sacerdoti. Tuttavia, in
queste stesse regioni, altri gravi problemi, quali ad esempio la povertà e la
miseria materiale di gran parte della popolazione, la mancanza di risorse e di
condizioni necessarie per una buona infrastruttura pastorale e, non di rado,
l’attività di proselitismo delle Sette, spesso profondamente anti-cattoliche, di
sovente costituiscono una rilevante sfida per il ministero dei sacerdoti. Non
possiamo inoltre dimenticare che anche a queste regioni, a poco a poco,
soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione e la mobilità umana, arriva, in
modo sempre più penetrante, la cultura post-moderna, dominante nel mondo
attuale.
Ci sono poi
i problemi tanto sottolineati, e a volte sovradimensionati negli ultimi anni dai
media che riguardano, è vero, una
piccola parte del Clero, ma hanno ferito anche, indirettamente ed
ingiustamente, tutti i presbiteri nella loro credibilità e dignità: i problemi delle deviazioni e degli abusi
sessuali. Il più grave, senz’altro, è quello della pedofilia, grave
anzitutto a causa della debolezza ed innocenza delle vittime, i minori che
restano traumatizzati e feriti nella propria personalità per tutta la loro
vita. Se ci fosse un solo caso, sarebbe già gravissimo e assolutamente deprecabile.
Purtroppo non si tratta solo di qualche caso isolato. In tutti questi casi, dobbiamo
essere decisamente e chiaramente attenti alla difesa delle vittime, come pure impegnati per il loro ricupero.
Tuttavia, dobbiamo dire, anche ad alta voce, che i sacerdoti coinvolti in tali
problemi sono una minima parte del
Clero. C’è poi un certo numero di chierici che non vive correttamente il
celibato o è coinvolto nella pratica dell’omosessualità. Anche questi sono
problemi che i Vescovi debbono impegnarsi a sanare, secondo le norme canoniche e gli
altri orientamenti espressi dalla Chiesa. Giova al proposito ricordare come
il Santo Padre Benedetto XVI, nell’Omelia della solenne celebrazione conclusiva
dell’Anno Sacerdotale abbia richiamato per il futuro la necessità di una più attenta e rigorosa selezione e formazione dei
candidati agli Ordini Sacri all’interno dei Seminari. In ogni caso, la
stragrande maggioranza dei nostri presbiteri è costituita da uomini degni,
generosi ed instancabili nella donazione della loro vita e di tutte le loro
energie, con grande sacrificio umano, in favore del popolo di Dio, specialmente
al servizio dei poveri, degli emarginati, di coloro che soffrono ingiustizie o sono
al limite della disperazione. Questa stragrande maggioranza, nonostante le
debolezze comuni e i limiti umani, propri della nostra presente condizione
d’imperfezione, è costituita da sacerdoti fedeli alla propria vocazione e
missione: fedeli e zelanti nello svolgere il loro ministero e nella consegna
totale del loro essere al Signore per l’avvento del suo Regno.
In
questo contesto, risulta veramente importante che i Vescovi dimostrino la propria paternità verso i
loro sacerdoti. Ricordiamo infatti che i nostri presbiteri, per mezzo
dell’Ordinazione presbiterale, sono i nostri “necessari collaboratori e
consiglieri nel ministero e nella funzione d’istruire, santificare e governare
il Popolo di Dio”, come afferma la Presbyterorum
Ordinis (n.7). Non possiamo dimenticare che i nostri sacerdoti ci sono
stati donati in Cristo da Dio Padre, per il bene della Chiesa e per la salvezza
di tutti gli uomini, quali “saggi collaboratori” (LumenGentium, 28) e come “fratelli ed amici” (Presbyterorum Ordinis, 7).
Circa il
fondamento teologico della paternità
del Vescovo verso i suoi presbiteri vorrei fare qui soltanto qualche cenno.
Come già detto, si tratta fondamentalmente di una communio sacramentalis: “Il Signore Gesù, all’inizio della sua
missione, dopo aver pregato il Padre, costituì dodici Apostoli perché stessero
con lui e per mandarli a predicare il Regno di Dio e a scacciare i demoni,
[come dice Mc 3, 14-15]. I Dodici furono voluti da Gesù come un collegio
indiviso con a capo Pietro, e proprio come tale adempierono la loro missione,
cominciando da Gerusalemme (cfr. Lc 24,46), poi, come testimoni diretti della
sua risurrezione verso tutti i popoli della terra (cfr. Mc 16,20)” (Direttorio per il ministero pastorale dei
Vescovi : DMPV 2004, n.9).
I
Dodici, a loro volta, affinché il ministero apostolico ricevuto da Cristo non
si estinguesse con la loro morte, ma perdurasse attraverso i tempi, hanno
imposto le mani su scelti collaboratori ed hanno invocato su di essi lo Spirito
Santo, rendendoli così partecipi di questo sacro ministero. Successivamente i successori
degli Apostoli, ossia i Vescovi, hanno a loro volta trasmesso, nella stessa
forma, il ministero apostolico a coloro che sarebbero dovuti succedere loro
attraverso i secoli, fino ad oggi. I Vescovi, inoltre, hanno reso partecipi del
loro ministero, attraverso l’ordinazione sacramentale, ma “in gradu subordinato”, altri collaboratori del ministero episcopale:
i presbiteri. La Costituzione Lumen Gentium (LG), del Concilio
Vaticano II, insegna: “I Vescovi hanno legittimamente affidato a vari membri
della Chiesa, in vario grado, l’ufficio del loro ministero. Così il ministero
ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da
quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I
presbiteri, pur non possedendo l’apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi
nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità
sacerdotale, e in virtù del sacramento dell’ordine, ad immagine di Cristo,
sommo ed eterno sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per
predicare il Vangelo, essere i pastori dei fedeli e celebrare il culto divino,
quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento” (LG,28). Subito dopo, la Lumen Gentium aggiunge che i presbiteri
“costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio, sebbene destinato ad
uffici diversi” e che nelle comunità loro affidate, “rendono in certo modo
presente il vescovo, cui sono uniti con cuore confidente e generoso”. Perciò,
“i sacerdoti riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con rispettoso
amore. Il vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli
ed amici” (cfr. LG, 28).
Il decreto
conciliare Christus Dominus parla
della paternità del Vescovo, dicendo: “Tutti i sacerdoti, sia diocesano che
religiosi, partecipano in unione col vescovo, all’unico sacerdozio di Cristo e
lo esercitano con lui; pertanto essi sono costituiti provvidenziali cooperatori
dell’ordine episcopale. […]. Perciò essi costituiscono un solo presbiterio ed
una sola famiglia, di cui il vescovo è come il padre” (n.28).
Risulta
così chiaro che il Concilio, riprendendo e formulando con nuova chiarezza la
dottrina cattolica tramandata fino ad allora, rende palese come il fondamento della
paternità del vescovo riguardo ai suoi presbiteri insista sulla “communio sacramentalis”. In altri
termini: il fondamento del rapporto paterno-filiale fra Vescovo e presbiterio è
il Sacramento dell’Ordine che il vescovo, come successore degli Apostoli, ha
ricevuto nella sua pienezza e, di
cui, a sua volta, ha reso partecipi, “quoad
sacerdotium” e “in gradu subordinato”
(Presbyterorum Ordinis, 2), altri
uomini della comunità imponendo loro le mani e invocando su di loro lo Spirito
Santo. Essi sono i presbiteri, dei quali il vescovo è, pertanto, come il padre
nel sacerdozio della Nuova Alleanza.
Il vescovo, rivolgendosi ai suoi presbiteri, può perciò esclamare con
l’Apostolo Paolo ai corinzi: “sono io che vi ho generato” (1 Cor 4,15).
Vediamo,
in questo modo, con maggior profondità, che la nostra paternità episcopale non
è un semplice atteggiamento virtuoso ovvero una nostra scelta: è insieme dono sacramentale e mistero di grazia in Cristo. Ne consegue che la paternità
episcopale verso i sacerdoti riguarda tutto il ministero episcopale, secondo le
sue tre dimensione di insegnare, santificare e governare: dimensioni che
partecipano del triplice munus cultuale,
profetico e regale del Sommo Sacerdozio di Cristo, unico mediatore delle
“imperscrutabili ricchezze” (Ef 3,8), per la nostra salvezza.
D’altra
parte il vescovo, nell’esercizio del suo ministero di padre e pastore,
innanzitutto nei confronti dei suoi sacerdoti, sarà sempre come colui che serve, avendo sotto gli occhi
l’esempio di Gesù Cristo che è venuto non per essere servito, ma per servire.
Il Signore, quando lavò i piedi dei suoi discepoli, disse loro, e a tutti noi
vescovi: “Vi ho dato l’esempio” (Gv 13,15).
Per
amare più concretamente, come padre, i suoi sacerdoti è importante che il
vescovo si renda sempre consapevole dell’identità
specifica dei presbiteri e così li tratti non come servi, ma come figli ed
amici, sull’esempio di Gesù nei suoi rapporti con i suoi Apostoli.
Su tale
identità presbiterale si è meditato e riflettuto spesso durante l’Anno
Sacerdotale, concluso dal nostro amato Papa Benedetto XVI l’11 giugno u.s. nella
Piazza San Pietro, in una concelebrazione eucaristica alla quale hanno
partecipato oltre 15.000 presbiteri convenuti da tutto il mondo. Nella sua
omelia il Santo Padre ha affermato: “Il sacerdote non è semplicemente il
detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in
essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che
nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola
dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la
situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le
parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione –
parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue,
e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio
e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma
sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui,
presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che affida
se stesso ad esseri umani; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene
degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia
di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio»”.
Le
parole del Santo Padre rendono, in modo molto concreto e vivace, il senso profondo del sacerdozio e,
parlando dell’audacia di Dio, che affida se stesso ad esseri umani pieni di
debolezze, cioè ai sacerdoti, mostra anche a noi, vescovi, come dobbiamo considerare
i presbiteri nella vera luce della debolezza umana e, al contempo, nella luce
dell’audacia di Dio, il quale li consacra e si affida a loro “per essere
presente per gli uomini ed agire in loro favore”. Proprio questa presenza del
Signore presso gli uomini attraverso il sacerdote, il Papa la presenta così: “È
bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura
di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si
preoccupa di me. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv
10,14) […]. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe
renderci veramente gioiosi. […]. Allora comprendiamo anche che cosa significhi:
Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia,
condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo
essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci
prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa
premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme
col Signore, dovrebbe poter dire: «Io conosco le mie pecore e le mie pecore
conoscono me»”.
Questi
accenni all’identità presbiterale – e potrebbero esserne aggiunti molti altri –
possono aiutare noi vescovi a guardare sempre in una luce più profonda e vera la figura del presbitero, affinché
possiamo essere per loro veri padri nella vita quotidiana. Leggiamo così nel
Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi: “Vicario del Pastore grande
delle pecore (Eb 13,20), il Vescovo deve manifestare con la sua vita e con il
suo ministero episcopale la paternità di Dio, la bontà, la sollecitudine, la
misericordia, la dolcezza e l’autorevolezza di Cristo, che è venuto per dare la
vita e fare di tutti gli uomini una sola famiglia, riconciliata nell’amore del
Padre” (n. 1). Il già citato documento conciliare Christus Dominus raccomanda ai vescovi che, da padri dei propri
sacerdoti, “siano disposti ad ascoltarli e a trattarli con fiducia e
benevolenza”; che “dimostrino il più premuroso interessamento per le loro
condizioni spirituali, intellettuali e materiali, affinché essi, con una vita
santa e pia, possano esercitare il loro ministero fedelmente e fruttuosamente”
(n.16).
Nella
misura del possibile, il Vescovo deve, perciò, aprire la sua agenda ad ognuno
dei suoi sacerdoti, ognuno preso singolarmente, in una sincera ricerca di
collaborazione e di crescita umana e spirituale. Crescerà così nel Vescovo
l’interesse sincero per conoscere davvero la
persona e la situazione concreta del
sacerdote. Egli comincerà a valutare più correttamente le diverse
circostanze nelle quali il sacerdote può venire a trovarsi: la sua solitudine,
la sua stanchezza, le sofferenze, lo scoraggiamento, la confusione, oppure, in
positivo, il suo zelo pastorale, le sue attività apostoliche, le sue
iniziative, le sue capacità, le sue aspirazioni e gioie, nonché i frutti del
suo lavoro sacerdotale.
“Occorre fare attenzione al pericolo
dell’abitudine e della stanchezza che gli anni di lavoro o le difficoltà
inerenti al ministero possono provocare […]. Il Vescovo studi, caso per caso,
il modo di ricupero spirituale, intellettuale e fisico, che aiuti a riprendere
il ministero con rinnovata energia” (Direttorio…dei
Vescovi, 81).
Ciò può accadere quando il sacerdote si
logora e si stanca per infermità fisica o per affaticamento morale. Talvolta
può accadere che acceda ad uno stato di abbandono e di noia quel sacerdote che,
nel ministero, si preoccupa esclusivamente di una propria autorealizzazione mondana, trasformandolo così da servizio in occasione
di cinico carrierismo. Allora, possono affiorare nel presbitero l’alterigia, la
superbia o l’arroganza.
Il Vescovo affronti sempre con
comprensione e benevolenza queste difficoltà; anzi, si rechi in soccorso dei
sacerdoti in tutte quelle difficoltà di ordine umano e spirituale in cui essi possono
imbattersi nell’esercizio del loro ministero. Quando si potrà dire che il
dolore e la gioia del sacerdote fanno parte dello stesso patrimonio interiore
del Vescovo, non solo egli amerà ma, certamente, sarà anche amato dai suoi
sacerdoti. Il Vescovo potrà esclamare con san Paolo: “Chi è debole e io non
sono debole? Chi patisce scandalo e io non brucio?” (2 Cor 11,29).
A questo proposito, vorrei ricordare che la
comprensione, la misericordia ed il perdono sono parte integrante della carità
di un Vescovo che è padre. Nel rapporto con i suoi presbiteri, la misericordia,
in modo particolare, deve essere considerata e vissuta dal Vescovo sotto la
luce di Cristo. In questo modo i sacerdoti non saranno mai soli.
Riguardo
ai sacerdoti che purtroppo, a volte, si rendono gravemente colpevoli anche nell’ambito
dell’ordinamento giuridico civile, circa i loro stessi doveri sacerdotali ed
umani, il Vescovo – come già detto - deve anzitutto vedere, provvedere e
riconoscere le ferite e i diritti lesi delle vittime: in special modo laddove
si tratti di minori e bambini, come nel caso della pedofilia ed altri abusi che
sono puniti come delitto sia dalla legge canonica che dalla legge civile.
Conosciamo la posizione ferma e lucida del nostro amato Papa Benedetto XVI
riguardo ai preti pedofili.
Ci sono,
poi, i casi di sacerdoti che praticano l’omosessualità o vivono in concubinato
con donna, spesso generando figli. Anche in questi casi il Vescovo non può e non
deve chiudere gli occhi. Anzi: deve
procedere secondo le norme chiare del Diritto Canonico ed ulteriori norme e
orientamenti della Chiesa. Se non lo facesse darebbe motivo di grave scandalo sia per i fedeli laici che per i chierici.
I sacerdoti, in particolare, che conoscessero il caso e sapessero che anche il
Vescovo lo conosce ma non procede a norma del diritto, ne resterebbero
fortemente turbati, con la possibile conseguenza di perdere ogni fiducia
nell’Autorità, oppure, di essere facilmente indotti allo stesso peccato nei
momenti di debolezza.
Tutto
ciò indica quanto sia necessario sviluppare e promuovere nei sacerdoti una salda, matura, adulta e profonda
spiritualità, tale da porli in grado di accogliere la grazia di Dio e di
corrispondervi vivendo generosamente il carisma del celibato. L’esperienza dimostra che la
perdita del carisma del celibato occorre frequentemente per quella mancanza di vita spirituale che porta da
un indebolimento della fede fino al suo totale smarrimento ed alla conseguente perdita
del vero senso della consacrazione celibataria per amore del Regno di Dio.
D’altra parte, quando analizziamo la cultura dell’attuale società post-moderna
ed altre culture tradizionali presenti in alcuni paesi, dobbiamo prendere atto che
esse non favoriscono il vivere, nel suo senso profondo, il celibato
sacerdotale. Anzi: quando non lo mettono in ridicolo, almeno lo avversano.
Tutto ciò mostra la grande necessità di aiutare i presbiteri a comprendere
profondamente il senso vero e vitale della loro consacrazione a Cristo nel celibato
sacerdotale e a potere così viverla nel mondo attuale. Il Vescovo, perciò, deve
accompagnare molto da vicino i suoi presbiteri e offrire loro tutto l’aiuto
possibile in questo ambito.
La
spiritualità è inoltre fondamentale anche per tutti gli altri aspetti ed
attività del ministero presbiterale. La sua importanza si basa sul fatto
che la vocazione e il ministero dei presbiteri si rendono comprensibili
solamente a partire dalla fede in Gesù Cristo e dalla Sua missione nel mondo. Solo
nell’orizzonte di Gesù Cristo troviamo la vera luce per capire il presbitero. Si
tratta di una vocazione e un ministero nati da Gesù Cristo e ciò significa una
partecipazione alla missione salvifica stessa di Cristo-Pastore. Così, siamo
davvero nel mistero di Dio e del Suo progetto di salvezza dell’umanità. Questo
indica, fin dall’inizio, il necessario rapporto personale e ministeriale del
presbitero con Gesù Cristo e la sua configurazione sempre rinnovata a Lui, il
Buon Pastore, mediante l’opera dello Spirito. Il sempre citato testo del
Vangelo di Marco sulla vocazione dei Dodici lo indica chiaramente. Lì si legge:
“Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da
lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e
perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-14). Così, il
presbitero, che è stato fatto partecipe del ministero apostolico, è chiamato ad
essere un speciale discepolo del Signore: “Stare con Lui”. Questo “stare” è il
nocciolo del discepolato e così anche della spiritualità del presbitero.
Tutti
sappiamo che senza una profonda vita spirituale
nessun sacerdote sarà felice nella sua vocazione e missione. Non troverà un
senso sufficiente per andare avanti nella sua strada.
Carissimi
Fratelli Vescovi, permettetemi di richiamare ancora, in modo sintetico,
un’altra dimensione della vita e del ministero dei presbiteri che merita una
speciale attenzione dei Vescovi: la
missionarietà. La Chiesa oggi è fortemente cosciente dell’urgenza
missionaria, non solo nel senso della missione “ad gentes”, ma anche di un’evangelizzazione specificamente
missionaria in quei paesi dove la Chiesa è stabilita da secoli. Si tratta di
raggiungere di nuovo con la predicazione del kerigma cristiano i nostri battezzati che, per diversi motivi, si
sono allontanati dalla partecipazione alla vita della comunità ecclesiale.
Raggiungerli significa alzarsi e andare
da loro, cercando di incontrarli dove abitano o lavorano. Come ha detto il
Papa Benedetto XVI ai Vescovi brasiliani: “È necessario, pertanto, avviare
l’attività apostolica come una vera missione nell’ambito del gregge costituito
della Chiesa Cattolica […], promuovendo un’evangelizzazione metodica e
capillare in vista di un’adesione personale e comunitaria a Cristo. Si tratta
infatti di non risparmiare sforzi per andare alla ricerca dei cattolici che si
sono allontanati e di coloro che conoscono poco o niente di Gesù Cristo” (n.
3). E il Santo Padre aggiungeva, che in questo sforzo missionario, sia “ad gentes”, sia nell’ambito delle
regioni dove la Chiesa è già stabilita da secoli, i primi destinatari
dell’evangelizzazione devono essere sempre i poveri.
Infine vorrei insistere
sulla formazione permanente dei
presbiteri, che include anche la loro formazione spirituale. La Chiesa non
si stanca nell’insistere sulla necessità della formazione permanente dei
presbiteri. Nel Direttorio per il
ministero pastorale dei vescovi
(2004), della Congregazione per i Vescovi, si dice: “Il vescovo educherà i
sacerdoti di ogni età e condizione all’adempimento del loro dovere di
formazione permanente e provvederà ad organizzarla”. Più avanti dice: “Il
vescovo consideri come elemento integrante e primario per la formazione
permanente del presbiterio gli esercizi spirituali annuali, organizzati in modo
tale che siano per ciascuno un tempo di autentico e personale incontro con Dio
e di revisione della propria vita personale e ministeriale” (n.83). La Pastores
Gregis (2003), di Giovanni Paolo II, afferma: “L'affetto privilegiato del Vescovo per i suoi
sacerdoti si manifesta come accompagnamento paterno e fraterno nelle tappe
fondamentali della loro vita ministeriale, a partire dai primi passi nel
ministero pastorale. Fondamentale resta la formazione permanente dei
presbiteri, che costituisce per tutti come una «vocazione nella vocazione»
perché, nelle sue differenti e complementari dimensioni, tende ad aiutare il
prete ad essere e a fare il prete secondo lo stile di Gesù” (n.47). Oggi, più che mai, la formazione
permanente è necessaria in ogni settore della società, tanto più nel ministero
sacerdotale così impegnato nel trasformare in Cristo tutte le realtà umane,
nell’inculturare la fede e nell’evangelizzare le diverse culture. Conoscere la
realtà da evangelizzare richiede un costante aggiornarsi culturalmente e
teologicamente.
Concludendo,
voglio congratularmi con questa Congregazione per l’iniziativa del presente
convegno e ringrazio a voi, carissimi Fratelli Vescovi, per la pazienza e
l’attenzione. Voi siete padri, fratelli ed amici dei vostri sacerdoti. Loro vi
amano e vi ameranno ancora più se sperimenteranno di essere amati anche da voi.
Questo amore viene da Dio, è dono dello Spirito Santo, e perciò deve essere
chiesto nella preghiera e vissuto nella fede. Che Dio vi benedica e vi renda
felici nel vostro importante e bel ministero episcopale. Tanti auguri! Grazie!
Roma, 10 e 11 settembre 2010.
Cardinale Cláudio Hummes
Arcivescovo Emerito di São Paulo
Prefetto della Congregazione per il
Clero