Pontificia Università Lateranense

Corso di formazione teologico-pastorale per sacerdoti

«Pastori dinanzi all’emergenza educativa»

Lunedì, 15 novembre 2010 – ore 10.15

 

Intervento di S.E.R. Mauro Piacenza

Prefetto della Congregazione per il Clero

 

«Pastori di Cristo a servizio della Chiesa»

 

 

Eminenza Reverendissima,

Magnifico Rettore,

Venerati confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

carissimi studenti tutti,

 

Ringrazio di cuore il Signore che mi ha fatto dono di esser qui oggi con voi, per condividere alcune riflessioni, che aprono questa importante iniziativa, nata dalla collaborazione tra il Vicariato e il Centro interdisciplinare Lateranense di questa alma Mater, della quale io stesso sono ex-alunno, degli anni ‘70. Ritengo che la maggior parte di voi siano già stati costituiti pastori, mentre, forse, altri stanno ancora vivendo gli anni della formazione pre-sacerdotale, preparandosi a ricevere il Dono del Ministero, o, secondo una felice espressione del Santo Padre, si stanno preparando ad essere immersi in Cristo, nella Verità (cf. Omelia per la Messa Crismale, 2009).

Il tema che mi è stato assegnato è: «Pastori di Cristo a servizio della Chiesa», e con la stupita attenzione di chi si è lasciato totalmente coinvolgere da questa speciale predilezione del Signore Gesù, ci apprestiamo ad alcune riflessioni.

 

Introduzione

Si tratta, senza dubbio, di un tema molto ampio poiché coincide, di fatto, con la realtà stessa del Ministero sacerdotale. Mi limiterò, in questo contesto, pertanto, a commentarne i tre passaggi del titolo, senza dimenticare come esso si inserisca nell’orizzonte dell’emergenza educativa.

Ritengo necessaria una premessa: i tria munera sacerdotali sono sempre da considerare in stretta unità, inseparabili, anche se giustamente distinti, l’uno dagli altri. Se il tema dell’emergenza educativa potrebbe indicare, come più opportuno, soffermarsi sul munus docendi, bisogna tenere presente come sarebbe impossibile cogliere la reale portata di questo compito, se lo si considerasse appena giustapposto a quello di santificare e di governare, e indipendente dalla comune origine dal Sacramento dell’Ordine.

Ritengo pertanto che un’efficace risposta, tendenzialmente adeguata, all’emergenza educativa (e a quel “caso serio” di quella emergenza, che è l’educazione alla fede) sia rappresentata da una rinnovata presa di coscienza del compito sacerdotale, che ci è affidato, e di come esso rappresenti, se adeguatamente vissuto, una via educationis. Educare, infatti, non è distante dall’essere ciò che dobbiamo essere, “pastori di Cristo a servizio della Chiesa”. In tal senso, quanto autorevolmente indicato dal Santo Padre, durante l’Anno Sacerdotale, in ordine alla riscoperta della propria identità, rappresenta l’orizzonte di riferimento, nel quale leggere ed affrontare anche l’emergenza educativa.

Una società che non sappia più educare i propri giovani, è destinata al fallimento, e tale giudizio potrebbe, in parte, anche applicarsi all’aspetto umano dell’educazione ecclesiale. Se sappiamo che la Chiesa non è una realtà semplicemente umana, non di meno la nostra libertà è autorevolmente convocata dalle circostanze storiche, che sollecitano una sempre maggiore fedeltà e, perciò, una sempre maggiore efficacia missionaria.

Essere pastori, ed affrontare l’emergenza educativa, significa anche riscoprire la consapevolezza di essere stati costituiti in autorità, di avere, cioè, qualcosa di chiaro e di significativo da proporre, che coincide con la ragione stessa della nostra vita. Affermava il Santo Padre Benedetto XVI, lo scorso maggio: «Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe "sacro dominio", ma il vero significato non è questo, è "sacra origine", cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo».

Siamo così immediatamente collocati nella nostra autentica condizione: quella, derivante dal Sacramento dell’Ordine, di un più intenso legame di obbedienza a Cristo Risorto, Vivo ed operante adesso; tale obbedienza, ovviamente, è per noi obbedienza a Colui che è l’Amore incarnato, l’unica dalla quale possano scaturire, per l’uomo, la vera libertà ed il compimento del cuore.

 

1. Pastori

Secondo il tema assegnatomi, la prima espressione che intendo analizzare è l’immagine, di giovannea memoria, del “pastore” (cfr. Gv 10,1-16). Per il popolo ebraico, originariamente nomade, l’immagine del “pastore” era immediatamente ricollegabile all’idea stessa di sopravvivenza ed alla realtà grande di Dio. Come, nel mondo rurale, il pastore era colui che, solo, poteva guidare le pecore alla vita, cioè al nutrimento, al beveraggio ed al riposo, e senza di lui esse erano inevitabilmente perdute, così Dio si è fatto Pastore per Israele, il Suo popolo eletto.

È con questa potenza di significato, che lo stesso Signore Gesù introduce i Suoi discepoli in quella nuova dimensione, che l’unico Buon Pastore, ha definitivamente assunto per guidarli: la Sua carne, la Sua integra Umanità. Gesù di Nazareth, Signore e Cristo, è l’unico, vero Buon Pastore, e, prima ancora che all’azione pastorale in se stessa, il nostro essere pastori fa riferimento al legame con Lui, in tutte le sue possibili declinazioni. Nel testo giovanneo del Buon Pastore, troviamo tre affermazioni: Egli è la porta delle pecore (cfr. Gv 10,7), offre la vita per le pecore (cfr. Gv 10, 11) e, tra Lui e le pecore, v’è un rapporto di reciproca “conoscenza”: «Io sono il Buon Pastore, conosco le Mie pecore e le Mie pecore conoscono Me» (Gv 10,14).

Se non è mia intenzione proporre l’esegesi di queste tre caratteristiche, non possiamo non rilevare come si tratti di prerogative esclusive di Cristo, delle quali ci è donato di essere sacramentalmente partecipi, e che, in alcun altro modo, potremmo attribuire a noi stessi. L’inserimento nel Suo Corpo Mistico ci permette di agire in Persona Christi Capitis, nella consapevolezza che Colui che opera la Salvezza degli uomini è Lui, per il tramite delle nostre povere persone.

Come Cristo è la porta delle pecore, anche noi che siamo sacerdoti, siamo chiamati ad essere strumenti, attraverso i quali, gli uomini del nostro tempo possono “varcare” la soglia della fede. Senza nostro merito, se non quello di una libertà e di una volontà totalmente donate, dobbiamo essere anche noi, per analogia, “porta delle pecore”. Una porta chiusa, che non lasci nemmeno intravvedere la bellezza dell’ovile, non svolge il suo servizio. La porta potrebbe, in questo caso, essere metafora della nostra umanità, sulla quale siamo chiamati sempre a lavorare, e che, con il fondamentale aiuto della grazia santificante, siamo chiamati sempre a plasmare, secondo la statura dell’umanità di Cristo. Un’umanità “chiusa”, come una porta chiusa, che non favorisca, anche nella correttezza e nella bontà del tratto, l’incontro con il Signore, non è un buon servizio alla fede e all’evangelizzazione, perché, semplicemente, non è l’umanità del Buon Pastore.

Come Cristo offre la vita per le pecore, anche noi siamo pastori nella misura in cui, quotidianamente e con serena fiducia, offriamo la nostra vita al Signore e, perciò, ai fratelli. La fedeltà al compito che ci è affidato, qualunque esso sia, è il modo concreto che il Signore ha pensato per noi, per permetterci di offrire la nostra vita. Rifuggiamo, con severa vigilanza, dal tentativo di trovare maniere “nostre” o “autonome” di donare la vita. Cristo ci chiama, non solo ad imitarLo nell’offerta della nostra vita, ma anche ad obbedire, attraverso l’obbedienza alle concrete circostanze, al modo che Lui ha scelto per noi, affinché possiamo consumare la nostra offerta. Possiamo essere chiamati al martirio cruento, oppure al costante martirio del lavoro quotidiano; ciò che conta è il cuore profondo, con il quale viviamo la nostra offerta, e la coscienza che essa è a vantaggio della salvezza nostra e dei nostri fratelli.

Come Cristo conosce le Sue pecore, e le Sue pecore conoscono Lui, così ciascun pastore è chiamato, in generale, alla conoscenza della realtà in cui vive ed opera, e, in particolare, alla conoscenza delle singole pecore a lui affidate. Una conoscenza che, evitando ogni intimità eccessiva, che nulla ha a che vedere con l’autentico desiderio di bene e di salvezza dell’altro, si traduca in costante presentazione al Signore, nella preghiera, delle persone a noi affidate; in generosa disponibilità all’ascolto delle confessioni sacramentali e alla direzione spirituale; in quella carità pastorale, che non solo tende a rispondere ai reali bisogni dei fratelli, ma, con la sapienza dei santi, sa anche intuirli e prevenirli, affinché, stupiti dalla conoscenza e dall’amore, possano più facilmente aprirsi alla fede.

La via concreta, perché il Buon Pastore “accada” nella nostra vita e sia riconosciuto dai fratelli che vivono intorno a noi, è l’accoglimento libero dei Suoi doni: il carisma del celibato, il dono del Ministero e la conseguente identificazione con esso.

Il celibato, che non è certo solo una legge ecclesiastica, né è il prezzo per poter essere ordinati, ma è il prezioso dono che Dio fa a coloro che sono chiamati a servirLo totalmente nel Ministero sacerdotale, ci rende misteriosamente ma efficacemente “porta delle pecore”; è esso stesso “offerta della nostra vita” e ci permette quella libera ed equilibrata conoscenza delle pecore, che ogni altra situazione affettiva impedirebbe.

Il dono del Ministero, poi, domanda pressantemente alla nostra libertà quel moto di continuo stupore, poiché esso trascende permanentemente sia la nostra capacità di comprensione, sia, ovviamente, i nostri meriti. Un tale stupore, lungi dall’intimorirci o dal relegarci in un complesso di inadeguatezza, deve spingerci ad un moto di profonda gratitudine e di “ingenua baldanza”, tipico di chi sa di avere incontrato la Verità, di essere stato immerso nella Verità e, per questo, di essere stato costituito annunciatore della Verità, pastore delle pecore.

Tutta la vita, carissimi confratelli, dal giorno della nostra Ordinazione in poi, ci è data per accogliere, contemplare e progressivamente immedesimarci con il Dono straordinario della configurazione ontologica a Cristo Sacerdote, che il Sacramento dell’Ordine ha operato in noi. Potremmo dire, per analogia, nec lingua valet dicere, nec littera exsprimere, exspertus potest credere! Solo chi vive, chi è esperto dell’intimità con Dio, e del miracolo che quotidianamente accade, tra le nostre mani, di offrire Dio al mondo, nel Santo Sacrificio dell’altare, può vivere in quel continuo, grato stupore che, necessariamente, si irradia, divenendo uno dei principali fattori di testimonianza e di evangelizzazione.

Più che di leaders o di manager, capaci di organizzare ogni dettaglio della vita pastorale, il mondo ha bisogno di preti che abbiano il cuore di bambino, che vivano uniti al Signore e alla Sua Santa Madre, che sappiano commuoversi della Celebrazione dell’Eucaristia e dalla conversione dei peccatori. Il mondo ha bisogno di pastori, perché ha bisogno di vedere Gesù!

 

2. di Cristo

Il secondo elemento del tema assegnatomi specifica, con un noto genitivo possessivo, l’identità del pastore.

Mentre ciascuno è chiamato a quella relazionalità inclusiva, che aiuta tutti gli uomini a scoprire la bellezza e la grandezza dell’Amore divino, l’essere di Cristo porta con sé una dimensione di esclusività, per la quale, chi è di Cristo non può essere di nessun altro. Tale dimensione ribadisce il valore del sacro celibato e si colloca in una radicale appartenenza, capace di vincere ogni solitudine nel Ministero e di ridefinire, costantemente e stabilmente, la nostra identità. Chi è il sacerdote nel 2010: uno che è di Cristo!

Tale genitivo, come sappiamo, indica, oltre alla nostra appartenenza, la conformazione ontologico-sacramentale al Signore e, segnatamente, quel dato che la Dottrina definisce “sigillo sacramentale”. Il sigillo è, in realtà, il segno dell’appartenenza: quando il Signore pone il proprio sigillo su una realtà, dichiara definitivamente che quella realtà Gli appartiene e, perciò, non è più disponibile ad alcun altro possesso. Essere di Cristo significa, dunque, appartenerGli, non solo moralmente e spiritualmente, come origine e come tensione, ma essere Suoi ontologicamente, in forza del sigillo sacramentale ricevuto.

Tale appartenenza ci introduce anche all’autentico significato della rappresentanza sacerdotale. Il Santo Padre Benedetto XVI ne ha data una luminosa descrizione, affermando: «Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa "rappresentare" qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente – ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione […]. Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Agisce realmente e realizza ciò che il sacerdote non potrebbe fare: la consacrazione del vino e del pane perché siano realmente presenza del Signore, l’assoluzione dei peccati».

 

 

3. a servizio della Chiesa

Infine, come pastori di Cristo, ed è il terzo elemento del tema assegnatomi, siamo a servizio della Chiesa.

È evidente che, in tale contesto, si deve intendere “Chiesa” nell’accezione più ampia del termine, altrimenti si rischierebbe di non percepire tutta l’ampiezza della missione che, con la sacra Ordinazione, ci è stata affidata. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che ciascun sacerdote, pur legittimamente incardinato in una determinata circoscrizione ecclesiastica, è sempre ordinato per l’intera Chiesa e la sua missione è rivolta all’intera umanità.

Il “servizio” altro non è che il “Ministero”, che ci è stato affidato. Tutti sappiamo come, nella lingua greca, la parola “ministro” indichi esattamente “servo”. Il servo, nell’antichità, non era soltanto lo schiavo, ma era propriamente colui che apparteneva al proprio padrone, era suo “possesso”. Se, ovviamente, l’accezione negativa del termine “schiavo” è totalmente superato, non è, né potrebbe esserlo, superata la dimensione dell’appartenenza che esso indica. Siamo servi, viviamo a servizio della Chiesa e, attraverso di essa, dell’intera umanità, perché apparteniamo a Dio, siamo Suoi e, in Nome Suo, pronunciamo le Sue parole e compiamo i Suoi gesti di salvezza.

In tale ottica di servizio derivante dall’appartenenza ontologica, che diviene morale, esistenziale e spirituale, si comprende come siano totalmente fuori luogo, biblicamente e teologicamente illegittime, e spiritualmente pericolose tutte quelle concezioni che, all’interno della Chiesa, vorrebbero contrapporre fedeli laici e sacerdoti, Popolo santo di Dio e Gerarchia; preferisco dire christifideles laici e christifideles clerici.

Nella Chiesa, chi è più di Cristo serve con più passione! Chi appartiene di più al Signore, chi vive più intensamente l’intimità divina con Lui serve con maggiore generosità i fratelli, fino al dono totale di sé.

È questa, tra le altre, una delle ragioni che rendono il celibato ecclesiastico irrinunciabile. La Chiesa sceglie, anche attraverso il celibato, di porre, a servizio dei fratelli e a capo della comunità, coloro che sono più radicalmente ed esclusivamente di Cristo, coloro che più intensamente, anche attraverso il loro stato di vita, Gli appartengono. E non c’è nessuna appartenenza più radicale, totalizzante ed esclusiva che la verginità per il Regno dei Cieli. Il mondo, che, costantemente e reiteratamente, attacca il celibato, lo ridicolizza o lo delegittima, mostra la chiara consapevolezza che in esso sta una forza formidabile del servizio e una tra le condizioni stesse dell’efficacia missionaria della Chiesa.

Essere “a servizio” indica, allora, la radicale appartenenza a Cristo, che muove il nostro io ad imitarne la carità, favorendo quell’incontro tra l’uomo e Dio, che è la ragione stessa del Mistero dell’Incarnazione e che, proprio in tale Mistero, ha la sua irripetibile e piena realizzazione.

Come umanamente il servizio non può essere “trascinato” o vissuto nella distrazione di chi non ha coscienza di chi sia il suo “padrone”, così il Ministero che ci è affidato domanda la lieta e certa coscienza di Colui, al quale apparteniamo, e la conseguente dimensione luminosa e lieta del servizio che svolgiamo.

Fatti salvi i legittimi momenti di stanchezza, che certamente toccano tutti, per l’enorme mole di lavoro che ciascuno quotidianamente affronta, è necessario ribadire come i fedeli laici ci domandino di essere segni lieti e certi, gioiosi e portatori di speranza, capaci di comunicare quell’esperienza di vita nuova, che il Signore ha introdotto nel mondo. La radice di un tale evangelico atteggiamento, potrà essere, per alcuni, anche caratteriale, e benedicano Dio per questo! Per tutti, invece, può e deve essere il frutto del rapporto personale con Cristo e della conseguente, continua vigilanza ed ascesi, che, nel tempo, plasma la nostra umanità, rendendola, in tal modo, sempre più docile al Signore, sempre più “ponte” sul quale i nostri fratelli uomini possono passare per incontrare il Dio della vita.

Servire nella gioia è, dunque, uno dei segreti dell’efficacia missionaria del nostro Ministero. Una gioia che ha in Dio la propria radice e che domanda di documentarsi anche in quei rapporti umani, in quelle sane amicizie presbiterali, che siamo chiamati a vivere; amicizie che divengono vera e propria scuola di correzione fraterna, di conforto e di esperienza della prossimità di Cristo, fratello e amico, nella nostra sacerdotale esistenza.

Una delle possibili risposte all’emergenza educativa, che tutti viviamo, è proprio questo “ripartire dall’umano”, “ripartire dall’io” che rappresenta la vera novità del Cristianesimo. I nostri mezzi umani paiono totalmente inadeguati rispetto a quelli di cui dispone il mondo; i mezzi di condizionamento dell’opinione pubblica e della cultura, attraverso i giornali, la televisione, e soprattutto, ormai, internet, appaiono ai nostri occhi come dei giganti, che sono riusciti a plasmare la cultura dominante, rendendo, apparentemente, gli uomini impermeabili al Vangelo.

Ogni Golia, però, incontra il proprio Davide, purché Davide sia capace di usare la fionda che gli è posta in mano e di prendere la giusta mira.

La fionda, che a noi è posta in mano, la possibilità che sempre abbiamo, di fronte a qualunque emergenza educativa, è la nostra umanità cambiata; la novità che Cristo ha operato in noi e che, soprattutto nel disastro umano che ci circonda, acquisisce un ancora più forte significato, divenendo una vera e propria novità!

Il bersaglio a cui mirare, poi, la possibilità, cioè, che sempre abbiamo, di annunciare Cristo e di essere compresi e accolti, è rappresentata dal concreto uomo che abbiamo davanti. Le irriducibili esigenze di verità, di bellezza, di amore, di giustizia, di significato, in una parola, di felicità che costituiscono insieme il senso religioso universale dell’uomo, tali preziose esigenze rappresentano la possibilità, che sempre abbiamo, dell’incontro. In nessun altro mezzo, per quanto potente, di persuasione, l’uomo trova la risposta ai propri bisogni fondamentali, e tale coscienza deve sempre, con chiarezza, animare ogni nostro gesto pastorale.

La “nuova evangelizzazione”, per non restare un semplice slogan, deve essere condotta da “nuovi cuori”, cioè umanità profondamente rinnovate dall’incontro con Cristo, capaci di incontrare, nella novità della vita, che Cristo porta, il cuore di tutti gli uomini.

In tale contesto, l’essere “a servizio della Chiesa”, indica la necessaria e permanente comunione di ogni agire pastorale con l’intero Corpo ecclesiale. La Chiesa è il nuovo Popolo di Dio, la Presenza del Risorto nel mondo; Presenza che, concretamente, è incontrabile, udibile, toccabile, nell’umanità di tutti coloro che sono stati incontrati da Cristo e che, a partire dall’immersione battesimale nel Suo Mistero di morte e Risurrezione, sono stati rinnovati nello Spirito.

La Chiesa è, inoltre, nella Sua dimensione squisitamente comunionale, dove la comunione con Dio precede ontologicamente, teologicamente e spiritualmente, ogni comunione umana, una compagnia: un “luogo”, cioè, nel quale sperimentare la prossimità del Mistero. Tale compagnia è, per grazia di Dio e per Sua esplicita Volontà, guidata. Non è affidata agli umori prevalenti nella cultura dominante, né al peccato sempre presente nella vita degli uomini. La Chiesa è una compagnia guidata da Cristo stesso, il Quale, presente ed operante nel tempo, grazie alla Sua Risurrezione, ne è l’unico vero Capo. Ogni altro ruolo e compito della Gerarchia, della quale tutti i sacerdoti sono membri, deriva dalla partecipazione a questa suprema sollecitudine di Cristo stesso per il Suo Popolo, per il Popolo che Egli si è acquistato a prezzo del Suo sangue (cfr. 1Pt 2,9).

In quest’ottica, teologicamente fondata e esistenzialmente significativa, si comprende come la comunione ecclesiale non sia appena un “impegno morale” del nostro essere sacerdoti, ma ne rappresenti, in realtà, l’origine, la fonte, la condizione di possibilità e, nel tempo, di apostolica fioritura.

È possibile diventare santi, pur avendo peccato, e mendicando la Divina Misericordia, che plasma la mente e il cuore, e permette di tagliare con il peccato; non è possibile, invece, diventare santi, al di fuori della comunione ecclesiale; al di fuori, cioè, del rapporto intimo, perseverante e costitutivo con la Sposa che ci è stata affidata, con Colei che, nonostante i peccati degli uomini, e persino dei sacerdoti, è e rimane sempre una, santa, cattolica ed apostolica! Rimane sempre la “tutta santa” e la “tutta bella”.

Non capiti mai, carissimi confratelli, che il nostro limite o, peggio, il nostro peccato, possa oscurare il volto, luminoso e santo, della Chiesa. Come ministri ordinati, che agiscono, non più soltanto a titolo personale, ma a nome della Chiesa stessa, non abbiamo il diritto di adombrare il Corpo di Cristo, né di tradire la fiducia che Dio ha riposto in noi e l’attesa, con la quale i fedeli laici ci guardano.

Senza cadere in alcun ricatto moralistico, perché la fede, anche dei fratelli laici, deve sapere che Dio sempre agisce con strumenti inadeguati, dobbiamo tuttavia lasciarci continuamente rinnovare dalla grazia santificante, purificare dalla Misericordia, vivendo la quotidiana fedeltà all’Ufficio divino, alla Celebrazione Eucaristica, alla meditazione e all’orazione mentale, all’Adorazione Eucaristica e al Santo Rosario, che costituiscono il DNA dell’identità sacerdotale e sempre ricordando la frequente regolarità nella confessione sacramentale. La condizione stessa di possibilità di vivere in modo meno inadeguato possibile l’altezza morale che è richiesta ad un uomo di Dio, e rappresentata proprio da quel continuo dimorare in Lui, del quale la preghiera è la più elementare ed efficace espressione e conseguenza.

La comunione ecclesiale, poi, domanda, quella oggettiva e riscontrabile visibilità, che si traduce nell’“idem velle, idem nolle” di ciceroniana memoria. Immedesimarsi con il pensiero di Cristo e della Chiesa significa volere ciò che vuole Cristo e la Chiesa, curandosi di non discostarsi mai dalla Dottrina autentica e di non far mai prevalere le proprie personali opinioni ed emotività su quanto la Madre Chiesa indica come cammino al riconoscimento del vero e alla stessa esperienza di Cristo. Tale fedeltà, in chi è appassionatamente di Cristo, non è un impegno, né uno sforzo e, men che meno, una mortificazione! È la semplice, naturale conseguenza di un amore, della chiarezza sulla propria identità ed appartenenza e, in definitiva, del proprio sentirsi “Corpo”, appartenenti all’unico Corpo di Cristo Risorto e di Esso, per straordinaria, divina predilezione, membra elette. La fedeltà è un’esigenza dell’amore vero!

Anche in questo ambito, è necessario riaffermare quanto la teologia classica, e, segnatamente, San Tommaso d’Aquino, sempre ha indicato: l’ordine del vero e l’ordine del bene non sempre coincidono e, non di meno, violare il primo comporta una maggiore responsabilità, poiché implica un uso più esplicito della volontà.

Essere a servizio della Chiesa significa, allora, conoscerla e amarla, studiarne il Magistero e diffonderlo, vivere di quella straordinaria esperienza, che colloca ciascun sacerdote nella Chiesa e di fronte alla Chiesa.

Il compito di guida e di presidenza, di annuncio e di salvezza, che ci è stato affidato trae la propria efficacia esattamente dalla comunione con la Chiesa, dal nostro essere “pastori di Cristo a servizio della Chiesa”.

 

Ci aiuti, in questo percorso, nella riscoperta quotidiana della nostra identità, la Beata Vergine Maria. Lei, prima e più di tutti noi, è “di Cristo a servizio della Chiesa”! Lei, che non è stata resa partecipe del Ministero sacerdotale, in senso stretto, ha vissuto, in forza del “sì” della propria libertà, mirabilmente coniugato alla speciale predilezione a Lei riservata, l’appartenenza a Cristo, che in Lei ha preso carne, e, così, il più grande servizio alla Chiesa e all’umanità, che nessuna creatura abbia mai compiuto. Grazie!